Terapia Procedurale di Ologrammi Materni
È un errore sperare di essere capiti prima di essersi chiariti davanti a sé stessi
Simone Weil
Capitoli
Parigi, 0
Un giorno insieme
Atterraggio morbido
Studio delle madri degli altri Parigi, 1
Astrologo
Dare un nome alle cose
Parigi, 2
Scappano tutti
Uniti con lo sputo
La telefonata
Parigi, 3
Nido di mani intrecciate nel vento Tempismi
Tu dividi io scelgo
Parigi, 4
Identità
Fante di zucchero
Forse ho bisogno di un minuto Parigi, 5
Ritornello
Decide l’anima
Parigi, 6
Abaco di emoticon Tanatocatapsia
Jocelyne’s spoiler special Appunti telefonici su via Notari
(alcune considerazioni finali) (forse sono inutili)
(sono decisamente inutili)
Parigi, 0
Lungo la strada mi sono fermato ad una pasticceria e ho paura che qualcosa si stia sciogliendo dentro la scatola. Sono in orario. Sono in orario perché sono arrivato in anticipo e ho aspettato a citofonare ma ora non risponde nessuno. Entro con altri due sconosciuti approfittando di una persona che esce dall’ingresso. Seguendo l’infografica della distribuzione degli uffici salgo le scale ed arrivato davanti alla porta giusta suono al secondo campanello. Nessuno risponde, quindi aspetto di nuovo. Le due mini sacher ed i sei èclair non se la stanno passando molto bene.
Sono passati dieci minuti quando riconosco Michael che sale le scale. Ci salutiamo per la prima volta lì anche se non capisce perché non lo stia aspettando dentro. Gli spiego che ho suonato ma non ha risposto nessuno. Mi fa segno con la mano di aspettare un momento, prende le chiavi dalla tasca, apre la porta e dentro, oltre il grande blocco di un data center c’è una serie di tavoli uniti insieme per ospitare più persone che in quel momento sono in riunione ed uffici separati da vetri ed altre stanze che si vedono lungo un corridoio. Il campanello esterno è rotto!, dice Michael.
Si voltano tutti, più che sorpresi sembrano inorriditi da questa inefficienza e si alzano guardando la porta come se fosse la prima volta che vedono una porta e così guardano i due campanelli esterni e allo stesso modo le serrature ed il pomello interno e poi quello esterno. Qualcuno allunga la mano sulla superficie interna della porta anche, probabilmente stupito del materiale che la ricopre, ma agli altri è chiaro che almeno quella sia vernice. Ora capisco perché il corriere ha dichiarato nella spedizione internazionale che ho inviato a questo indirizzo tre settimane prima che il pacco non è riuscito in nessun modo a consegnarlo per più di tre volte. Guardando questa scena mi stupisce che ci sia riuscito alla quarta, ora.
Il campanello è rotto da un po’, dice una ragazza con accento inglese che sembra avere dimestichezza con le cose fuori dalla routine dell’ufficio e riprende Ma noi usiamo quello sopra che è di una agenzia a cui se ho capito bene subaffittiamo parte dello spazio.
In quel momento vorrei davvero farmi esplodere con le mini sacher e gli èclair alla sede di Human Rights Watch di Parigi ma è tanto che volevo conoscere Michael quindi ci presentiamo tutti, poggio il cabaret sui tavoli uniti al centro della stanza, lo apro e chi c’è ne approfitta per una breve pausa caffè mentre con la responsabile con cui sono stato in contatto durante l’esecuzione del progetto faccio un giro degli uffici. Nell’ultimo in fondo hanno disposto le tavole di legno su cui ho disegnato il fumetto della storia basata sulla sessione di ascolto raccolta da Michael nelle sue ricerche alla Giungla di Calais.
È il mio primo fumetto realizzato su commissione. Dopo avere letto la storia della famiglia di rifugiati ho deciso di realizzarla su legno, in modo che potesse rimanere qualcosa di significativo di questa esperienza insieme. Forse avrei dovuto farla su carta e rendere il disegno più dinamico. Ma non è importante, oggi è la prima volta che Michael vede l’intero progetto davanti ai suoi occhi e sta facendo un sacco di foto con la stessa macchina che usa per le sue inchieste. Ho letto molto del suo lavoro prima di incontrarlo, delle documentazioni che svolge in tutti gli angoli del mondo. Arriva la responsabile della comunicazione, a breve ha un volo per NYC. Con Michael, davanti ad una tazza di caffè, mi spiega che vogliono fare un post su Instagram con alcune delle tavole e che ha bisogno del mio nome per taggarmi. Spiego che il lavoro che ho fatto non va collegato al mio account ma a quello dell’associazione per la realizzazione di progetti di arte e pedagogia per rifugiati ed infanzia in difficoltà che ho creato con altri amici due anni prima. Spiego che è proprio come abbiamo concepito l’associazione e che non voglio nessun tipo di ritorno in termini di immagine individuale, che ho amato fare ogni pagina, che desidero fare nuovi progetti insieme ma non voglio che ci sia il mio nome come
è successo per tutti i progetti che mi hanno assorbito negli ultimi due anni. È qualcosa di nuovo per loro, anzi, non ho mai visto facce più perplesse: non hanno mai sentito di un artista che non voglia essere associato direttamente alla loro organizzazione. Comunque il mio è tempo perso. In quel momento non so che quello che succederà durante le settimane successive mi spingerà a chiudere definitivamente l’associazione e a pensare molto spesso a quel confronto in cui sono uno sciocco convinto che si può contribuire a fare cose importanti con uno spirito diverso, che mina completamente alla base il proprio individualismo in cambio della partecipazione a qualcosa di più grande.
Un giorno insieme
Il giorno dei morti è il giorno in cui con mio padre incontravo mia madre, ogni anno.
Ci si arrivava facendosi stretti marciando sul viale di ghiaia tra lenti sciami di fiori sgargianti esaltati dagli abiti scuri ed i volti, anche questi scuri, che le persone indossavano passato il cancello di ingresso. Imboccando quella stradina che divideva un prato di tombe e delle casette che contenevano intere famiglie con cognomi distinti e nomi che non si usavano più e che ora un po’ stanno tornando di moda si arrivava a lei.
Sta in alto. Lei sta in alto, incorniciata da una lapide in legno in cui è scolpita in bassorilievo una scena ambientata in un piccolo paese che non è dove ci troviamo, dove mi trovo lì con mio padre e lei. In basso, al centro, scavato più in profondità, con caratteri massicci e spigolosi
abbracciati da una spiga di grano c’è il suo nome e ancora più piccole ci sono due date, il giorno in cui è nata e il giorno in cui è morta e questa frase: il marito, il figlio e i tuoi cari.
Il marito e il figlio, mio padre ed io, eravamo lì davanti a lei con una rosa, ogni anno, tergiversando sul cosa fare esattamente arrivati lì, di quei minuti in silenzio passati insieme. Le vecchie signore impegnate tra le lapidi attorno si facevano cenno indicandoci con un piccolo movimento del mento. -Sono loro-, dicevano, mentre mio padre mi sollevava per farmi poggiare sulla mensola della lapide la nostra rosa. Da quel punto potevo vederla da vicino, lei, la sua foto. Poi mi rimetteva giù, facevamo qualche passo indietro guardando in basso, si baciava la punta delle dita, faceva qualche passo in avanti di nuovo, alzava il braccio e le metteva sulla piccola foto della mamma per un lungo istante, un lungo, lungo istante, chiudendo gli occhi con la testa abbassata.
Più avanti, visitando da solo quella lapide, avrei ricalcato gli stessi gesti.
Più avanti avrei capito che ero il testimone di un uomo ancora innamorato che portava una rosa al suo amore e che eravamo soli in tutto questo e che, purtroppo, avremmo avuto da lì in avanti compiti del tutto diversi da affrontare. Mio padre sapeva cosa fosse una madre e cosa fosse l’esperienza di una famiglia, per dire. Io non sapevo cosa fosse una madre o una vera famiglia, il mio mondo naturale da piccolo era fatto da noi due, lui ed io. Detestavo l’idea che ci potesse essere una sua sostituta perché non sarebbe mai stata vincolata ad un periodo di espiazione temporaneo, non avrebbe mai capito cosa ci fosse successo.
Tra di noi vivi non si parlava mai di lei se non pochi minuti e soltanto quel giorno. Tra di noi vivi intendo tra me e mio padre. Mio padre era l’unica persona attraverso cui poter raccogliere dei ricordi sinceri di lei. La trasmissione di questi racconti però non era spontanea. Dovevo chiedere. Chiedere significava approfittare di quel momento e rendere più difficile il giorno più difficile.
Tornati a casa, lasciato il trance della fiumara di gente e della nebbia alle spalle, poggiate le giacche che avevano assorbito gli umori del cimitero nel suo giorno più affollato, le domande su chi fosse la donna nella foto cominciavano a crescere ed a farsi insistenti.
Anticipare la consapevolezza che avremmo toccato l’argomento però portava entrambi una manciata di secondi dopo a respirare con difficoltà, sempre più lentamente, guardando il pianto trattenuto nelle viscere trasformarsi nei successivi singhiozzi in una rabbia incontenibile a cui succedeva un inutile abbraccio cauterizzante.
Quell’abbraccio significava che ci riconoscevamo tastandoci a tentoni in un abisso, che ancora dall’anno precedente non avevamo trovato la direzione fuori da un lutto che ci aveva annientati prima che loro, loro due, i miei genitori, insieme, potessero terminare i lavori per mettere a posto una vecchia casa colonica nella campagna emiliana in cui mio padre non volle mai più mettere piede, prima che io potessi comporre per la prima volta le sillabe dei loro nomi.
Lo stato alterato della voce di mio padre in quel momento, il sibilo delle parole affogate nel singhiozzo come che si diffondessero attraverso delle branchie di vetro, il peso del suo corpo enorme sul mio, non era soltanto il momento del ricordo, ma la mia iniziazione ai gesti di vero affetto che non ho mai inteso in maniera diversa da quelli che si manifestano nel pianto.
La mia educazione all’intimità e di tutto quello che significa l’amore era trasmesso in quel abbraccio goffo e tremolante tra il figlio di un giovanissimo uomo e suo padre. Lui, che difficilmente è riuscito a raccontarmi qualcosa di lei immerso nel suo dolore, ha fuso il senso
di un essere che nell’esaurimento di tutte le forze è ancora capace di amare e quello di un essere che nell’esaurimento di tutte le sue forze è ancora capace di lottare.
Questo amore che non ho mai capito fino in fondo nel suo modo di esprimersi, aspro ed incondizionato, pieno di energia e momentaneamente senza Dio, mi veniva trasmesso da un uomo.
Il giorno dei morti incontravo mia madre in mio padre, entrambi in quell’abbraccio straziante che aveva l’odore di caldarroste.
-Mio padre aveva conosciuto uno scultore in quegli anni. Veniva spesso in Emilia anche se aveva il suo laboratorio in Sicilia. Si erano visti di recente, non so se durante la vendemmia o per via di qualche festa tra amici comuni. Per puro caso era di passaggio in quel periodo. È a lui che chiese di fare la lapide in legno perché non voleva una lapide in marmo.-
Atterraggio Morbido
Sono al matrimonio di mia cugina. Lei è felice. I suoi genitori sono felici.
Dobbiamo ancora andare verso la chiesa, c’è un rinfresco al piano terra al riparo dal sole sotto un pergolato. Siamo in tanti, alcuni con il bicchiere pieno in mano esplorano i filari delle vigne attorno. Mio zio mi invita a seguirlo in un angolo senza persone prendendomi da parte. Forse per via della leggerezza di quel momento si sente di poter liberarsi da un peso e raccontarmi questa cosa che non mi avrebbe mai detto altrimenti. Decide di raccontarmi del giorno in cui è morta mia madre. È stato un furgone, mi dice. Lì capisco che sta parlando di cose che non hanno molto a che fare con il matrimonio. Era una strada dritta con tanti incroci. In quell’incrocio doveva dare la precedenza tua mamma, in tutti gli altri no, in quello si. Forse si è distratta guardandoti di fianco a lei, dice. Forse è per questo che mio
padre si arrabbiava sempre quando ero distratto, penso. Per via dell’impatto, mi vuole raccontare mio zio, sono schizzato fuori dal finestrino. I soccorritori arrivati in un primo tempo per tua madre avevano trovato una scarpetta rossa nella macchina ed un biberon ancora caldo e hanno capito che ci fosse un altro passeggero. Ti hanno trovato in un campo lì vicino, sull’erba. Fossi atterrato sulla strada seguendo un’altra traiettoria saresti morto sul colpo. A dieci mesi camminavi. Quell’estate avevi iniziato a fare i primi passi, mi dice. Per un po’ hai smesso. Dopo l’ospedale sei stato qui, con tuo padre, da noi.
Studio delle madri degli altri, parte 1
Il racconto dei parenti, i parenti francesi dico, di mia nonna o della sorella di mia madre, dico la seconda sorella che è quella che ho conosciuto, si contraddicevano.
Tra le due non c’erano buoni rapporti. Anzi, si disprezzavano apertamente. La mia infanzia era il loro terreno di gioco perché continuassero il loro show-down recriminandosi cose a distanza usando mia madre per i loro ricatti emotivi. Entrambe ci tenevano a spiegarmi quanto mia madre fosse la figlia migliore o la sorella migliore e quanto la amassero e quanto lei amasse più una di loro due rispetto all’altra. Erano sicuramente una miniera di informazioni ma qualcosa di quello sforzo, di quel riscrivere aneddoti per permettere a ciascuna di mettersi in buona luce in una sorta di nostalgia posticcia, ecco, non le rendeva credibili.
Una volta ascoltando BBC Radio Science durante il programma un giornalista pose la fatidica domanda allo scienziato in collegamento
telefonico Senta ma secondo lei Dio esiste? e lui disse Guardi la nostra realtà è fatta da gravità e velocità della luce. Lei immagini una manopola, tipo il volume dello stereo. Se lei la sposta anche leggermente da un lato le particelle subatomiche andranno in una dispersione infinita senza mai incontrarsi, se la sposta anche solo un pochetto dall’altro le stesse saranno le protagoniste di continue collisioni generando infine esplosioni atomiche. Ecco mettiamo il caso che Dio esistesse, questo è l’equilibrio a cui si deve attenere.
Il senso delle cose che incontravo nella famiglia francese era diverso dalla famiglia italiana. La prima era lanciata da decenni in una sorta di continua disgregazione cosmica, in fuga dalla figura di madre al suo centro. La seconda, pur essendosi dovuta arrangiare cercando fortuna emigrando qui e là, era coesa ed il nucleo fatto di una piccola mamma quasi tascabile teneva tutti collegati.
La felicità, la libertà, lo stesso senso del sé erano esaltati in modi completamente diversi. Le ultime terminazioni della prima famiglia si riconoscevano per quello che erano grazie al fatto di avere completamente reso inutile ogni possibile tentativo di contatto tra loro. Nell’altra una qualsiasi famiglia si estendeva a tutte le altre e la certezza era l’immediatezza senza calcolo di rapporti costruiti con il lavoro e la complicità di tutti. Farsi una idea di cosa diavolo fosse una madre, e per estensione in quei due mondi diversamente matriarcali una famiglia, partendo dall’osservazione dei rapporti con due esempi così eterogenei, era una ipotesi immediatamente da scartare.
Cinque fratelli, una sorella. D’estate capitava che si potessero per qualche giorno sovrapporre le vacanze di quasi tutte le famiglie, che ci si vedesse tutti, e che il pranzo insieme potesse essere composto da tavoli recuperati da ogni piano della casa disposti poi dalla cucina al balcone. Nella casa che li aveva visti crescere a tavola si raccontavano a turno aneddoti della loro infanzia. Un tema accertato era che quando mia nonna era arrabbiata con uno di loro, da piccoli, la prima
cosa che faceva prima di lanciarsi al loro inseguimento era voltare l’anello con la montatura verso l’interno, in maniera che se avesse mai acciuffato uno dei figli questo non avrebbe mai scordato quel momento. Però mia nonna, quella della Sicilia, quella personcina striminzita e deidratata sempre avvolta in un grembiule da cucina intenta a preparare da mangiare per tutti tranne che per se stessa, era senza dubbio amata. Si poteva vivere quell’amore, lì, e tra sorella e fratelli ci saranno sicuramente stati dei dissapori, dei grattacapi, delle menate, ma questo non aveva traccia tra noi osservatori bambini.
La partecipazione all’altra famiglia invece richiedeva una certa dimestichezza al provare risentimento che era l’entry level che lasciava alla porta le persone troppo buone e quindi inadeguate alla partecipazione che distingueva il principiante dal veterano e che rendeva impossibile non parteggiare come membro attivo per una parte o l’altra. L’escalation di azioni e reazioni si inceppava per lunghi momenti e riprendeva non appena venivo conteso per le vacanze tra i nonni -a dire il vero mio nonno era appunto una persona buona e non era considerato in questa faida immaginaria- e la zia. Se da una parte dopo i mesi di scuola finire in Sicilia in estate poteva portare a prendersi un eritema e chiudersi in una camera al buio per qualche giorno coperto di bolle piene di acqua, pelle rossa fluorescente ed unguenti, dall’altra capitare in Francia poteva portare a farsi convincere da tua zia a chiamare la nonna, che era cardiopatica dopo la morte della figlia, per raccontarle che avevi visto un cadavere galleggiare a bordo di un laghetto sostenendo la credibilità dell’avvistamento con dettagli studiati a tavolino. Era chiaro che stavo prendendo parte a qualcosa di profondamente sbagliato a causa del magnetismo di mia zia e la sua totale somiglianza alla persona nella foto che andavo a trovare al cimitero con mio padre.
Mio padre, comunque, prima che finisse la scuola, prese le misure delle consegne che doveva chiudere in falegnameria nei mesi estivi e per non avermi tra i piedi a rompermi e rompergli le scatole nella
campagna emiliana, ogni anno mi chiedeva dove volessi passare le vacanze e io senza un solo dubbio dicevo in Francia. Vuoi mettere Parigi con un piccolo paesino dell’entroterra della Sicilia?, pensavo. Ogni volta, in questa guerra asimmetrica, deludevo mio padre schierandomi con i francesi.
Parigi, 1
Vado a trovare per la prima volta mia cugina Elise ed Achraf, il suo compagno. La finestra della sala dà sul muretto che divide una strada lontana dal traffico dagli alberi senza foglie attorno ad un piccolo edificio per gli attrezzi da giardinaggio. Elise dice che l’appartamento è con vista su monumento. Vivono davanti al Père-Lachaise.
Elise è incinta. Mancano pochi giorni alla nascita di Louise. Il parco più vicino a casa per le passeggiate con Anais, la loro prima figlia, è quel cimitero. Elise mi racconta della figlia e delle domande che fa correndo e saltando a fianco le tombe e di come le spiegano che quelle persone famose non ci sono più.
Achraf non c’è. Elise ridendo mi spiega che da qualche ora sta seguendo in giro nel quartiere il segnale che emette la frequenza della sua bici. Qualcuno è riuscito ad entrare nello stabile ed a rubare le bici dei condomini, compresa la sua, quella che usa ogni giorno per andare a lavoro.
Astrologo
Lei ha avuto un rapporto difficile con suo padre?, è la prima cosa che mi chiede l’astrologo. L’astrologo mi è stato consigliato da Marco, un carissimo amico di Zagabria. Mio padre ed io abbiamo un dialogo difficile, rispondo, Deve immaginare due sopravvissuti in qualche modo, gli dico. Mia madre è morta quando avevo un anno. Non è stato facile per lui crescermi da solo. Non è stato facile per noi. L’astrologo mi ferma. Mi dice che sul mio tema natale non c’è la morte di mia madre. Anzi, ci sono altri tre fratelli, mi dice. Gli confermo che è morta, che le cose sono andate diversamente, che mia madre e mio padre hanno avuto solo me. L’astrologo si scusa, dice che sono pochi anni che fa l’astrologo, che forse ha sbagliato qualcosa ma per come ha disposto le cose è tutto corretto. Dico che non fa niente, che mi fa piacere che ci sia anche questa possibilità in cui non è contemplata da nessuna parte la sua morte.
In quel momento mi chiedo se non sia morta davvero, se c’è un’altra verità. Se è successo qualcosa di cui non sono stato informato, anzi, di cui sono stato tenuto all’oscuro. Se due intere famiglie sono riuscite a mentirmi sulla morte di mia madre, ancora viva. Ascolto l’astrologo mentre mi parla di altre cose, di persone che sono suoi clienti abituali, di un suo cliente che di mestiere fa il sicario su commissione con diversi pianeti in ariete o roba simile, mentre calcolo quante possibilità ci siano che mia madre in tutti questi anni sia stata viva.
Qualcosa ha senso.
Dare un nome alle cose
Mia madre era la più piccola di tre figlie. Si chiamava Sylvia. Non è che non ricordo il nome di mia madre ma devo controllare sempre dove sta la ipsilon. Sicuramente al posto di una delle i. Devo sempre controllare quale.
Il suo cognome sembra impronunciabile ma quello lo so scrivere senza andarlo a cercare. L’ho sempre messo a fianco di quello di mio padre per vederli assieme anche se il suo mi è sempre stato sconsigliato di usarlo.
Scrivere il suo nome è un momento per sincronizzarci. Ripercorro i ricordi che ho raccolto su di lei e le restituisco mentalmente cosa mi è successo nella vita fino al punto dove mi trovo in quel momento.
Non mi succede solo con il nome di mia madre, o solo con i nomi, comunque. Credo di avere passato gran parte della vita a non definire e portare l’indefinito a sistema e oltre, verso la Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta. Non è una semplice difficoltà a ricordarmi i nomi delle persone. A loro devo garantire uno spazio, che ci sia la possibilità di un margine perché la persona possa essere altro, chiamandosi in un altro modo, se necessario. Succede con tutti i nomi. Il suo, il tuo, il mio anche, se mi prendi impreparato.
Fino ad un certo livello questa cosa deve essere comune. I motivi degli altri sono dovuti a scaramanzia o a cattiva memoria. Riconosco che ci sia un lato scaramantico per me, anche. Sono assolutamente, assolutamente convinto che appena imparo il nome di una persona sta di fatto che questa sparisce dalla mia vita. Meglio non ricordare bene i nomi allora.
Mettendola su questo piano la Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta è un sistema di sicurezza autonomo totalmente inefficace per contrastare la sofferenza. Quello che intendo con sicurezza è vivere in un ambiente che non definisce niente, possibilmente da una
posizione molto lontana, meglio se siderale, rispetto a tutto quanto in maniera da eludere ogni possibilità di ingaggio con il mondo delle cose finite. Una cosa del genere dovrebbe permettere di non creare attaccamenti come credo inconsciamente vorrei, ma genera soltanto un sacco di figure di merda, che poi comunque la persona ci rimane male se non ricordo il suo nome e forse è per questo che poi la perdo. Non ci sono solo questioni di routine nella Dottrina, ci sono tutte le cose. Dal tenere nella cassetta della posta almeno un mese le lettere prima di aprirle, al definire la traiettoria delle vacanze il giorno stesso della partenza, al guardare una persona in maniera infinita. Questioni come la sessualità a quel punto diventano totalmente irrilevanti ad esempio. Non si tratta di due sessi, si tratta della normalità di un ventaglio illimitato.
Uno degli aspetti positivi dell’esercizio consapevole alla Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta è poter essere il solo testimone della meraviglia di una persona, senza che questa possa anche solo immaginarlo. Uno degli aspetti negativi è che sono certo, e la mia compagna ne è sicuramente testimone ed ancora più certa, di averle proposto di sposarci, questo tre anni fa, senza ancora avere stabilito una data.
La Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta è a sua volta la base per l’Espansione Infinita, che è il modo per comunicare con mia madre con semplicità.
Parigi, 2
Chiamo il cimitero. La signora al telefono mi chiede gentilmente i nomi dei miei nonni. Mi conferma che sono lì e mi dà il numero delle loro tombe. Mi dice che sono uno a fianco all’altro. Dico una cosa, la signora dal ricevitore dell’ufficio ride. Deve essere una battuta che ha sentito più di una volta.
Mi chiedo se si amassero. Mi chiedo se il nonno è felice con la nonna a fianco. Lo immagino con gli occhiali che studia i nomi dei cavalli da giocare al Bois De Vincennes. C’è questa storia del nonno e della nonna che il nonno ogni fine settimana faceva credere alla nonna che andava a giocare ai cavalli. Era lei che gestiva i soldi del suo stipendio e per i cavalli glieli dava contati. Invece di giocarseli una settimana dopo l’altra aveva deciso di andare comunque a fare una passeggiata a Vincennes per vedere i cavalli, ma di mettere insieme quei soldi invece per comprare un’auto a rate. La macchina doveva essere il suo unico spazio, un modo per stare almeno lì per conto suo. Una volta fecero un viaggio e la nonna gli diceva di continuo cosa fare e dove girare e ad un certo punto in autostrada il nonno accostò e la fece scendere. Questa scena non so neanche come immaginarla. Voglio dire: accostò e la face scendere. Non credo che la lasciò lì, la storia si interrompe in quel punto, però immagino che il messaggio le arrivò forte e chiaro, almeno sulla pace di cui il nonno avesse bisogno in quel piccolo ritaglio di mondo.
Scappano tutti
Mio nonno aveva perso i genitori durante l’Olocausto. Perso non è la parola giusta. Lui ed il fratello erano nascosti dall’altra parte della strada in cui si trovava la piccola sartoria di famiglia a Porte de Clignancourt. La madre era stata consegnata dai collaborazionisti ai nazisti davanti ai suoi occhi. Venne spento momentaneamente da una mano sulla bocca per non emettere fiato ed un efficace pugno nel diaframma dal fratello che lo fece svenire, salvandoli entrambi. Senza soppesare le conseguenze avrebbe potuto urlare una cosa come mamma! mamma! e farsi acchiappare o ancora più stupidamente correrle incontro. Il fratello lo salvò da un viaggio a Mauthausen o Dio sa dove.
Credo che non sposò tanto mia nonna quanto l’idea che ci potesse essere una famiglia, ancora. Di non essere più solo. Lo rassicurava che lei avesse una famiglia. La sola condizione imposta da lei credo sia stata di cambiare il suo nome. Il padre di mio nonno gli diede un nome davvero strano.
Era molto amato dalla mia bisnonna. La mia bisnonna non mi è chiarissimo come, era davvero minuta, ad un certo punto della sua vita cercò di spararsi con un fucile. Era una persona davvero molto gentile. Forse è stata la sua di gentilezza che lo convinse a sposare mia nonna. Mio nonno ha fatto tanti lavori. Quando incontrò mio padre per la prima volta che all’epoca doveva ancora diventare falegname gli disse J’etais a la Renault au chauffage central, Lavoravo alla Renault mi occupavo del riscaldamento centrale, credo, ma ho sempre pensato avesse fatto il tappezziere, immaginandolo portare sulle spalle questi grandi rotoli di tessuto in giro per Parigi. Forse non l’ho immaginato, forse ho visto una foto. Mia nonna era impiegata in un megastore in un edificio del centro.
Non hanno mai cambiato casa. Era un piccolo appartamento al terzo piano di una palazzina di mattoni rossi in una banlieue. C’era un ingresso striminzito, il wc subito a destra, la cucina usata anche per lavarsi con una bacinella, la sala e la camera da letto. Come vivesse una famiglia di cinque persone, padre, madre, tre figlie, lì, è difficile da capire. È meno difficile, contestualizzando quel piccolo appartamento, immaginare il motivo per cui le figlie scapparono tutte di casa non appena si presentò a ciascuna l’occasione giusta. Mia zia nei vari tentativi di farmi disprezzare sua madre per cui, come credo di avere spiegato in vari modi, ha sempre covato un odio esplosivo, mi ha sempre detto che sono tutte scappate a causa del carattere opprimente di mia nonna.
Contestualizzando meglio mia nonna era la figlia di un ebreo. Mica un ebreo comune, era un rabbino. Era stato fatto prigioniero, preso a Parigi e portato in un campo di concentramento per poi riuscire a scappare dalla Germania. E questo lo aveva molto probabilmente aiutato a ridefinire la sua scala valoriale aprendogli gli occhi su chi fosse: un sopravvissuto ebreo decisamente incazzato nero, -e un rabbino-. Questo aiuto che i nazisti nel loro corso avanzato di coaching gli diedero per capire ed esprimere al meglio chi fosse lo rese molto legato ai vincoli della religione che trasmise alla sua famiglia e che mia nonna adottò nella sua in maniera molto osservante o per meglio dire opprimente.
Mio nonno che era una persona buona che si, è vero che accostò la macchina in autostrada per lasciarci mia nonna ma che comunque poi la riprese a bordo, non disse mai niente delle figlie scappate di casa. Voleva a tutte un bene dell’anima ed era contento che fossero andate via da quella prigione. In fin dei conti è probabile che sentisse che fosse giusto che fossero andate così le cose e che si fossero allontanate.
Per come ho potuto sentire le cose io, invece, penso che semplicemente senza troppe menate e teorie, cinque persone, lì, ci vivessero strette e sopportarsi fosse complicato.
La prima scappò di casa e non si fece mai più sentire. Per migliorare la totale sospensione delle comunicazioni che poteva essere ottenuta negli anni ottanta con l’ingombrante mancanza di motori di ricerca e cellulari e social network, sposò un uomo di estrema destra rendendo chiara l’invalicabilità delle sue ragioni.
La seconda, quella di cui scrivo sempre, scappò a sua volta sposandosi giovanissima. Credo fosse molto giovane perché nelle foto ci sono i miei nonni che non hanno l’aria di essere particolarmente felici. Forse aveva diciassette anni ed era necessaria la loro firma. A spanne la ragione di quei musi lunghi è quella e forse perché il compagno se ne batteva totalmente il cazzo dei vincoli e delle tradizioni da cui appunto lei voleva liberarsi. Loro, i due zii insieme, erano davvero ganzi. Del tipo ganzi-ganzi. Per spiegare meglio il messaggio ai genitori ho sempre pensato che si fossero spostati da Parigi alla costa dell’Atlantico per incrementare la distanza da mia nonna.
Anche mia madre era scappata di casa. Che avrebbe dovuto fare?, alla fine dei conti erano scappate tutte, che sarebbe dovuta stare a fare lì? Non ho ben capito per quale motivo, se per trovare una scappatoia da mia nonna o per capire l’origine opprimente della madre e curarne gli effetti almeno su se stessa, ma decise di andare in un kibbutz in Israele. Non era la mossa sposare uomo di estrema destra, non era la mossa sposare l’incarnazione selvaggia del sessantotto, era la terza via: affrontare le proprie origini sul campo.
Uniti con lo sputo
Questa famiglia che si teneva insieme con lo sputo per qualche motivo che ho scordato aveva progettato in un momento surreale di pace relativa di riunirsi tutti insieme per Natale, un Natale di molti anni fa. Sarebbe stato il primo Natale che avrei conosciuto la famiglia della prima zia fuggiasca e visto tutti insieme in un qualcosa che potesse somigliare ad una idea più come dire, italiana, di famiglia. Mia zia, sempre quella, non la primogenita dico, mi prese da parte e mi disse Non provare neanche per sogno a parlare con suo marito, nessuna menzione di origini ebraiche, di queste cose non si parla. È Natale, festeggiamo Natale come le persone che festeggiano Natale e che sono felici a Natale. Non fare o dire cazzate. Niente battute. Non ci provare neanche. Mi raccomando, zitto.
Fu un Natale bellissimo perché ogni volta che quell’uomo apriva la bocca, e tutti lo lasciavano fare perché la regola del Natale felice che mi venne imposta fu ribadita a tutti e ci impediva sostanzialmente di contraddirlo, per quanto fossi giovane, potevo capire che chiunque lì volesse buttare lui e la sua boria fuori da quella casa. Sarebbe stato bello prenderlo per il culo spiegandogli che per venti e passa anni gli era stato nascosto che aveva sposato una donna ebrea ma la parte migliore sarebbe arrivata più avanti, a bocce ferme, qualche mese dopo.
-Il Natale è sempre stato un momento triste prima di conoscere Edilia. In realtà Edilia mi mette davanti tutti gli aspetti della persona disadattata che sono e mi mostra l’esperienza delle cose che ho mancato, che non ho voluto permettermi di vivere, anche. I suoi occhi si illuminano a Dicembre e Natale diventa un momento bello, sacro anche, che io cerco di non rovinarle. Sono diversi anni che siamo insieme e un po’ di Natali li ho rovinati cercando di sopportare quella felicità incomprensibile che vorrei avere ma che per la memoria che ho delle cose, della mia esperienza, mi viene difficile vivere anche solo vicariamente attraverso di lei. Natale, in cui mi sono sempre ritrovato nello sforzo, anche generoso visto il periodo, di non impiccarmi è cambiato grazie a lei.
La telefonata
Un giorno uno dei nuovi cugini che conobbi quel Natale, il figlio della prima zia scappata di casa che si era sposata con un uomo di estrema destra che quel Natale cercò di spiegarmi la sua teoria secondo cui la donna è come un vaso vuoto contribuendo a costruire nella mia mente il concetto di “indimenticabile sgradevolezza”, mi chiamò. Emanuele, ciao, sono tuo cugino quello lì. Volevo chiederti una cosa. Ero sorpreso della chiamata, pensavo non tanto Chissà che cazzo vuole tanto Chissà che cazzo è successo da dovermi chiamare, sarà una emergenza.
Senti, volevo chiederti questa cosa: io sono ebreo?, mi chiese. Sentii per la prima volta le mie guance colorarsi di rosso e un piacere viscerale, osceno, che mi liberò dalla tensione di possibili notizie che hanno a che fare con l’irreparabile. -Benvenuto nel club delle persone cresciute senza spiegazione delle proprie radici- avrei voluto rispondergli, dato che la mia conoscenza delle cose era limitata ad avere quell’informazione senza l’approfondimento culturale necessario attorno, cosa che aveva raggranellato mia madre anche per me ma che per ovvie ragioni non mi aveva trasmesso.
Per girarci un po’ attorno iniziai a spiegargli che dopo le cose successe in famiglia di cui eravamo delle risultanti fuori dai giochi, nostra nonna aveva elaborato un approccio riformista per formulare le cose e che diceva che lei era cittadina Francese, nel senso francese di cittadina e che la Francia è un paese laico e che non c’erano altri margini di spiegazione con noi mezzosangue bastardi o qualsiasi cosa potessimo essere ai suoi quasi onniscienti amorevoli occhi.
Insomma lì per lì gli dissi Senti, ma tu sei a Parigi, no?, La nonna è viva, il nonno è morto, ma lei è viva e non è che è viva ma non capisce un cazzo, va bene che è vecchia ma fa le parole crociate, si trova a Parigi come te, che voglio dire Parigi non è mica Città del Messico, vai nel suo quartiere, il suo indirizzo lo hai sicuramente, suona al citofono e vedi che ti dice. E tu che pensi che mi dica?, mi chiese. Vai da lei e scoprilo, gli dissi. Una cosa posso dirti. Conoscendo la nostra famiglia, credo che ti stia aspettando.
Parigi, 3
Dietro al Centre Pompidou c’è un bar. Anzi, ce ne sono due, uno ad ogni angolo dell’uscita della metro e sono entrambi pieni. Mi sono organizzato per arrivarci spaccando il minuto ed incontrarmi lì con un amico di Christian per prendere un caffè. Lui ha sentito parlare di un ragazzo che si è ritagliato uno spazio tra i sacchi di riso di un piccolo negozio di alimentari specializzato in articoli mediorientali in un quartiere ad un’ora a piedi da lì. In quell’ufficio improvvisato aiuta le persone a mettere insieme i giusti documenti perché venga loro riconosciuto lo stato di rifugiato. Ho raccolto diverse storie da ragazzi che sono scappati da Kabul tre mesi prima per il rotto della cuffia e vorrei avere una sua opinione su quello che ho ascoltato e trascritto. Ci salutiamo dopo avere ricevuto altri consigli su alcuni progetti che sto seguendo. Attraverso qualche banco di turisti fino a che non c’è più traccia di loro, imbocco un grande viale in salita e mi dirigo ad occhio e croce verso il quartiere di Stalingrad. Il negozio c’è, lo trovo, si trova in una piazzetta triangolare a lato del boulevard. Chiedo al negoziante, che è decisamente molto sorpreso di vedere un tizio che non fa parte della sua comunità, se per caso conosce un ragazzo che corrisponde alla descrizione che mi è stata fatta. Poco
dopo sono fuori dal negozio, non mi ha saputo dire niente. Nel senso che molto probabilmente non ci capiamo, non abbiamo nessuna lingua comune e non ha capito quello che ho cercato di spiegargli e io quello che ha cercato di dirmi. La nostra espressività descrive molto bene però che siamo entrambi dispiaciuti di non capirci. Ho la schiena all’ingresso, pochi metri davanti al negozio. Sto controllando il cellulare per capire come raggiungere un amico che nel frattempo mi ha scritto per un appuntamento da lì a qualche ora, forse ha trovato qualche informazione. È in quel momento che sento una mano che mi stringe la spalla e mi volto di scatto e c’è un uomo che indica con il pollice il negozio da cui sono uscito e mi dice in inglese Il proprietario non ha capito cosa volevi e mi ha mandato a parlare con te. Se cerchi il ragazzo che viene qui ad aiutare gli afghani oggi non c’è comunque posso dirti una cosa?, faccio sì con la testa e lui riprende Ci hanno tradito tutti, europei e americani. Ci hanno tradito tutti. Questa persona davanti a me ha il volto pieno di pace ma sento che è profondamente turbata. Allora gli chiedo se gli va di spiegarmi cosa pensa davanti ad un caffè e lui mi accompagna dall’altra parte della strada in un bar stretto e lungo dove dentro non c’è posto perché un gruppo di persone tornando da lavoro sta guardando un match di pugilato. Ci mettiamo nella veranda esterna anche se fa freddo. Appoggio sul tavolino la penna ed apro il mio quaderno, mando un messaggio al mio amico per dirgli che probabilmente farò tardi, non mi alzerò da lì fino a quando non mi avrà raccontato la sua storia. È l’unica cosa che posso fare per questa persona: resistere malamente al suo dolore, ascoltarla, lasciare se ci riesce che si racconti dando qualche ordine ai suoi pensieri. Un paio di ore dopo il bar è vuoto, non ce ne siamo accorti. Ci alziamo, lui si offre di accompagnarmi alla metro di Stalingrad e lì ci salutiamo.
Nido di mani intrecciate nel vento
Per via del caldo di queste ultime due settimane di luglio, della testa che ha bisogno di scrivere sotto i venticinque gradi per mettere insieme un pensiero, anche per correggere alcune cose che sicuramente sono sbagliate e per fingere di farmene ripetere altre che volevo mi raccontasse di nuovo, ma soprattutto per trovare un po’ di frescura, lo ammetto, ho chiamato mio padre spiegandogli che stavo scrivendo un po’ di noi, della mamma, di loro e che sarei passato in montagna per andarlo a trovare se la cosa non lo avrebbe agitato troppo. Ero molto preoccupato che con questo caldo, spiegandogli il motivo della visita, avrebbe avuto un mancamento. Mi ha detto di raggiungerlo. Vieni qui, parliamo, mi ha detto.
Tua mamma era molto curiosa delle sue origini, dice mio padre. Lui ed io siamo seduti in cantina su due vecchie sedie. Non ha aspettato che gli chiedessi qualcosa. Inizia, così. Da solo, prendendo il primo argomento che ha in testa. Lo ascolto. Prendo appunti. Lo guardo. Gli guardo le mani. I muscoli. Le vene. Le posizioni che prende, i gesti. Il viso.
La cantina è in ordine. È piena di barattoli di marmellate e conserve e bottiglie di vino messe con cura su ripiani e scaffali. C’è il fresco che cercavo e posso seguire le sue parole con attenzione e tenere una seconda attenzione non meno vigile su di lui. Se gli trema la voce sospendo, penso. Se picchietta con la mano, se vedo dell’agitazione, sospendo con una scusa, mi dico.
Inconsciamente un figlio, riprende mio padre piuttosto divertito che ci troviamo in cantina a parlare, Vuole sapere, vuole conoscere le radici del genitore. La comunità ebraica di Parigi era molto grande, era un punto dove si dirigevano da ogni posto in Europa tante
persone, tante famiglie, tante vite. In quegli anni lei si chiedeva se fosse realtà o fantasia quel posto verso cui partivano in tanti. Era molto, molto curiosa di Israele, dice mio padre. Quindi partì per andare a lavorare in un kibbutz e si ritrovò in una vita paramilitare. In questo punto del racconto mio padre fa una faccia strana, è esattamente, davvero esattamente, la faccia di quando io faccio una cazzata. Peggio: è la faccia giudicante di quando io faccio una cazzata.
Per approfondire ulteriormente le sue origini sposò un uomo e insieme si trasferirono in Svizzera. A distanza di un anno divorziò e tornò brevemente in Francia ospitata da amiche, dice mio padre, a cui a questo punto della storia la faccia cambia, si illumina ed anticipa qualcosa che comincia a conoscere di prima mano, perché di Israele e della Francia, mia madre, non ne ha mai voluto parlare con lui. Quel momento è un buco nero, dice. Tua mamma comprò uno zaino ed un sacco a pelo dicendo alla sua migliore amica che voleva fare il giro del mondo. Partirono insieme iniziando a girovagare per l’Italia per poi finire in Sicilia. Da lì approfittando di un gruppo di persone che andavano a Reggio Emilia arrivarono sul Cusna, una montagna del nostro Appennino.
È lì che conobbe mio padre. Lui era appena tornato da due anni di servizio civile in Madagascar, che in quegli anni se non volevi fare il militare ti appioppavano due anni, secchi, senza cerimonie. C’era un vento fortissimo quel giorno, dice. Se facevi un salto, dice mio padre, ti portava metri più avanti e il gioco era diventato esattamente quello: saltare e farsi trasportare dal vento. Mio padre quel momento me lo ha spiegato lì, quello del loro primo bacio, che è stato il vento di quella montagna che li ha spinti uno nelle braccia dell’altro e non sapendo cosa fare si sono baciati. Era la primavera del ’79, dice, e vorrei potermi scordare di questa cosa per farmela raccontare di nuovo, sempre.
La mamma si divertiva quando stava con me, era quella la cosa importante, stare bene insieme, mi dice. Je dois pisser! Je dois pisser!, Devo fare la pipì! Devo fare la pipì! diceva stringendosi le gambe. Si faceva la pipì addosso quando rideva. Avevano bisogno di iniziare qualcosa insieme e un amico li mise in contatto con i proprietari di una casa colonica che ebbero in comodato d’uso a patto di rimetterla a posto. Era una cosa possibile in quegli anni. Sono cose che non si fanno più, credo. Ci ho lavorato tanto, mi dice mio padre. Ho fatto l’impianto del riscaldamento, rifatto il soffitto, ho messo le porte, pitturato dappertutto. L’armadio che hai avuto in tutte le case in cui hai vissuto e che abbiamo buttato nell’ultimo trasloco lo avevamo comprato insieme.
Quando tua mamma è venuta in Italia ed è stata con me ha sentito, ecco, una liberazione. Era gioiosa. Si era costruita alcune amicizie. Imparava speditamente l’italiano e parlava inglese, francese e tedesco. Per un po’ ha insegnato lingue, poi è andata a lavorare in una cooperativa agricola, si divertiva con le sue amiche a fare i mercati, e poi è rimasta incinta. Ci siamo sposati così, con leggerezza, senza pretese, come due zingari, dice mio padre, che è lì, davanti a me, che forse comincia a sentire un po’ il freddo della cantina ma sorride e la voce è rilassata.
Tua mamma non so se ha avvertito i suoi genitori. In effetti delle foto di quel giorno, in cui lei e lui si riparano dal lancio del riso e sono vestiti in jeans e abiti semplici e leggeri con dei motivi etnici, il nonno e la nonna non ci sono. Non mi ricordo se glielo ha detto che ci saremmo sposati, dice mio padre. Il viaggio Parigi-Reggio Emilia in treno durava quanto andare a New York. Bisognava andare fino a Lione, cambiare a Torino, poi Milano. Con due stipendi medi, vivendo a Parigi, sarebbe significato spendere tutto, dice mio padre cercando di giustificarli in qualche modo e aprendo e chiudendo le mani, sfregandole, intrecciandole come un nido.
Tempismi
Mio padre per andare a trovare la nonna, sua mamma, in Sicilia si faceva fare sempre il biglietto da uno dei suoi fratelli. Qualche anno fa incrociandolo per le scale che andava appunto a farsi fare il viaggio di andata e ritorno da lui gli dissi che insomma, potevo anche farglielo io, bastava che mi dicesse approssimativamente i giorni. Glieli prenotai con lui di fianco a me, glieli andai a stampare e partì senza problemi. Due settimane dopo, il giorno prima del suo ritorno all’aeroporto di Bologna, mi mandò un messaggio dicendo che il biglietto di ritorno che avevo preso non era per quel mese, ma quello successivo.
Esatto. Stesso giorno, mese diverso. Ero mortificato, davvero mortificato di un errore così stupido. Non mi è mai successo nei miei viaggi di scambiare un mese per l’altro, ma senza quell’errore di prenotazione non avrebbe mai potuto essere lì con lei nei suoi ultimi giorni. Decise di rimanere, di stare vicino a sua madre, alla nonna, che morì dieci giorni dopo.
Mia mamma dopo il matrimonio non voleva andare a Parigi. Il desiderio di ristabilire un contatto con i suoi genitori, di mettere le cose a posto, era forte ma di certo non riusciva a vedere -come- dopo tutto quello che era successo. Mio padre, che era cresciuto in una famiglia del tutto diversa, spingeva perché potesse riconciliarsi. A malincuore, quasi, mia madre prese una decisione ed a Natale partirono insieme per Parigi.
Di anni dalla guerra non ne erano passati a sufficienza per fare i moderni e passare sopra quello che era successo, e mio padre si guadagnò il benvenuto solo dopo qualche giorno, dopo alcune visite tra i genitori ed i nonni della mamma.
Alla prima visita nell’appartamento in cui era cresciuta, la nonna accolse la mamma con un J’espere que tu fai pas comme avec l’autre, Spero che tu non faccia come con l’altro, provando che la sua innata predisposizione alla diplomazia non l’aveva mai abbandonata e brillava ancora nel cielo, irraggiando ogni persona della sua vivificante accoglienza.
Il nonno, che aveva tutt’altro carattere, che dopo tutto questo scrivere comincio a rendermi conto che solo un uomo molto buono come lui potesse stare con mia nonna, dopo un paio di giorni prese mio padre e se lo portò alle corse dei cavalli che per lui voleva dire una cosa simile a Ora sei di famiglia.
Com’è come non è, pur essendo il truce Italiano nella stanza colpevole di ogni nefandezza della seconda guerra mondiale, pur ricevendo le dovute occhiatacce giudicanti dal bisnonno, pur avendo dovuto assistere ad uno scambio molto teso tra mia mamma e la zia, la seconda sorella, che si risolse nelle lacrime di mia madre, pur essendoci una implicita resistenza a riallacciare i legami da parte di mia nonna vista la fuga di tutte le figlie e il ritorno di una di queste incinta di un italiano, c’era atmosfera di festa.
Era stato ristabilito un ponte. Forse proprio grazie a mio padre, all’italiano nella stanza. Mia nonna, quella che insomma, aveva un po’ un carattere fatto a modo suo lo abbiamo capito, qualche merito lo diede sicuramente a mio padre visto che imparò l’italiano credo proprio in segno di gratitudine verso quella cultura incapace di stare serena a meno di vedere madre e figlia riprendere a parlarsi, riconoscersi diverse ma di nuovo unite.
Chiaro che c’è molto di poetico in questa storia dell’italiano nella stanza, ma il metodo dell’italiano nella stanza tra mio padre e me non ha funzionato. La possibilità di riconoscerci reciprocamente diversi ma uniti è stata sempre una carta presente in tutte le mani che ci sono state date, ma è sempre stata ignorata o mai utilizzata quasi per il
gusto di perdere, mettendo entrambi fuori dai giochi, al confino dal cuore dell’altro.
Tu dividi io scelgo
C’è una regola che mi è stata trasmessa davanti ad un panino da uno dei miei zii. Da quel giorno l’ho sempre usata, enunciandola nella sua semplicità, consapevole della sua automatica trasmissione a questa o quest’altra persona che mi sarei trovato davanti.
Questa regola non sta scritta da nessuna parte, ma è una regola talmente universale che viene adottata da chiunque la possa ascoltare almeno una volta. Salverebbe la razza umana, terminerebbe ogni conflitto, anche tra i popoli più bellicosi e porterebbe la pace in ogni angolo della terra. La regola del panino al sacco suona così: chi divide non sceglie.
Non si può dividere e scegliere, anche. O dividi o scegli. Se sei tu a dividere è l’altro che sceglie. Se dividi male, accetti quello che ti lascia l’altro. Insomma, hai capito. Sta tutto nel saper essere esatti. Anzi, è una regola che educa a monte ad essere costruttivi, giusti. Questa non è una regola di scambio in cui si ottiene qualcosa di diverso da quello che c’è, da quello che si divide e delle sue parti. O che le trasforma. O che le moltiplica. Se siamo in due, e tu dividi un panino e sta a me scegliere le parti, se dividi male, prendo la parte più grande. Non è facile dividere bene, lo so, e se non sei bravo a dividere e ci hai messo dell’impegno forse ti lascio la parte appena più grande, che te la meriti. Ma se non hai cercato di farle giuste, le parti, la più grande la prendo. È giusto così, perché chi divide non sceglie.
Dio divide e sceglie, invece. Fa tutto lui. Dio rompe la regola fondamentale della divisione dell’ultimo panino nei pranzi al sacco. Dio non divide e non sceglie, anche. Può tenere il panino in mano tra pollice ed indice per una eternità, lasciando morire di fame chi ha davanti ad ogni livello delle sue manifestazioni fisiche e non fisiche per infiniti cicli di nascita e morte, senza dare chiarimenti, e poggiarlo delicatamente, attraversando la prima bruma dell’aurora dell’anima luminescente che fuoriesce, sulla polvere straziata delle sue ossa, dopo. Molto dopo, senza neanche avergli dato un morso. Credo che sia una circostanza del senso del dopo che non si può trasmettere con le parole finite, che non si può capire. Che non posso capire. Che non possiamo capire. Può fare quello che vuole con quel panino. Può cagarci. Ma questo lo può fare qualsiasi persona irrimediabilmente stronza, vero. Può soffiarcisi via il moccio soffiando da uno dei suoi infiniti nasi. Usarlo come binocolo, anche se in teoria dovrebbe essere in grado di vedere tutto, ovunque, anche senza panino-binocolo, giusto. Infilarci uno dei suoi infiniti cazzi e farcisi una sega. Può farci qualsiasi cosa con quel panino e può non farci qualsiasi non cosa. E non c’è risposta se chiedi il motivo. Non c’è motivo.
Fuori dalla grazia di Dio è un concetto che non esiste sul piano della grazia di Dio, dove ci troviamo tutti, da dove Dio è irraggiungibile ma in ogni cosa. Dio è l’unica entità fuori dalla grazia di Dio, dove ha scelto di essere se questa è la sua grazia e se da qualche parte esiste Dio. È questa tensione verso Dio, che si è diviso da ciò che ha creato scegliendo di stare per i cazzi suoi, che si chiama fede. Dio che è il suo stesso perfetto pensiero di Dio perfetto non può che sentirsi spesso non diverso da quello che si chiama capriccio nella lingua degli uomini, la fede degli uomini invece, quella è una cosa sentita tanto da essere vera e le religioni dedicate a Dio una cosa seria. È con la stessa tensione che le persone usano per raggiungerlo dove ha scelto di non essere raggiunto, nell’irrequietudine di una
insormontabile distanza raffigurata come profondo stato di quiete o estasi a seconda dei casi da ogni pratica spirituale, che ho praticato in mille modi i tentativi per connettermi a mia madre, credo, incazzato con questo come una iena perché non ha rispettato l’unica regola non scritta dei comandamenti umani: la regola del panino al sacco.
Dio ha diviso mia madre da me, mio padre da lei, me da mio padre, lei da noi, noi da tutte le cose, e ci ha portati alla deriva l’uno dall’altro. E non lo ha fatto perché è rotto, o inceppato, o viviamo tutti da diversi millenni in un periodo in cui è assente, in manutenzione. Dio, fuori dalla gravità e la velocità della luce dico, fuori dalla grazia della sua grazia, immagino che faccia un po’ quello che gli pare. E ci ha diviso. E ci ha diviso perché quel giorno gli girava così. E senza un significato ha scelto mia madre. Senza motivo.
Il Dio di cui tutti vogliono parlare non è per le parole, che le parole sono già divisione e scelta attraverso la definizione di un nome, di questa o quella cosa. Dio funziona con il pensiero, il pensiero più astratto e potente possibile. Così ogni giorno con il pensiero lo porto verso di me formulando pensieri di amore, come i vampiri che inviti a varcare l’ingresso di casa, per poi colpirlo con una occhiata quando si avvicina. E so che apprezza perché è così che mi ha voluto, diviso da lei, scelto tra i due per ciò che sono, sapendo nella sua perfezione che se lo incontrassi lo ucciderei. Anzi, lo dividerei in due. Una parte, si la sceglierei io e sarebbe sicuramente la più piccola, la darei agli irriducibili, a chi ne sente davvero il bisogno, però sotto forma di panino. Un panino che se gli dai un morso ti mette la fame di due panini e se gliene dai due ti moltiplica la fame per quattro, tanto da decidere da soli di regalarlo tutto intero a chi gli sta a fianco. E l’altra no, l’altra metà di Dio la vorrei tanto trasformata in un essere della mia specie. Anche per poco. Per poco tempo. Almeno da vederlo nel fiore degli anni sentire la felicità in ogni nuovo battito del cuore per poi vederlo spegnersi, spontaneamente, da solo, guardando negli
altri la sofferenza che porta attraverso i loro infiniti occhi cavi in uno dei suoi infiniti mondi pieni della maledizione della sua grazia divina.
Parigi 4
Mi devo vedere tra pochi minuti davanti al municipio dell’undicesima circoscrizione, davanti all’uscita della metro Voltaire sulla linea nove, e me lo ripeto mentalmente perché ho finito la batteria del cellulare quindi se non ripeto il nome della metro ad ogni fermata fissando la mappa in alto sopra le porte della vettura me lo scordo o ancora peggio scendo ad un’altra stazione e addio incontro, con una persona che può spiegarmi due cose sui rifugiati Tibetani che ho filmato giorni prima.
Per prima cosa però vorrei ascoltare tutto quello che può raccontarmi, dalla sua esperienza, dato che è stato per molti anni responsabile degli universitari tibetani in Francia, all’agenzia che dirige per portare avanti dei progetti educativi per dei bambini in Tibet.
Poi, andando con ordine, vorrei chiedergli dopo un altro paio di domande se conosce la vecchia matta francese che il mattino della domenica precedente, fuori città, sotto ad un ponte, documentando un momento di festa della comunità dei rifugiati tibetani in attesa di asilo e costretta a vivere in una tendopoli, si è avvicinata, mi ha fatto un sacco di domande, mi ha intimato di non documentare più niente e mi ha scattato una foto spaventando tutti, compreso il giovane ragazzo tibetano che mi aveva accompagnato a questo evento.
Glielo chiedo perché nei giorni successivi mi è stato riferito da alcune no profit del territorio che questa fa parte della rete di spie a servizio del Service de Renseignement Territorial per monitorare e scambiare informazioni sui tibetani nel territorio.
Aspetto da qualche minuto ed è lì, ci riconosciamo, ci salutiamo e quando siamo uno davanti all’altro decidiamo subito di andare a berci qualcosa insieme. Lui lavora nella zona e mi porta in un café in cui possiamo anche pranzare. Mi spiega mentre guardiamo il menù che i tibetani preferiscono mangiare uno yak piuttosto che pescare proprio perché una sola vita può sostenere una famiglia intera per molto tempo quando invece un pesce no, non può, quindi ordiniamo due pezzi di uno stesso animale che possa sostenere molte più vite che soltanto la nostra e due birre. Io gli faccio tutte le mie domande, lui mi dice che alcuni occidentali hanno un rapporto morboso con i rifugiati tibetani, pensano di poterli possedere come talismani o qualcosa di simile e che comunque non bisogna scordarsi degli interessi cinesi nel non divulgare assolutamente nessuna notizia sulla situazione delle migliaia di persone alle porte di Parigi che vivono nella foresta come degli Ewok.
Io, che per un momento mi scordo della questione della vecchia pazza e che non sono un giornalista e che mi posso permettere la sincerità e l’insicurezza insieme mentre parliamo delle condizioni di vita di queste persone, lo guardo e cercando i suoi occhi gli chiedo Perché?, cosa hanno fatto per passare tutto quello che hanno passato?, perché succede tutto questo? e lui mi restituisce l’attenzione, beve un po’ di birra e mi dice Perché viviamo nella negazione, viviamo nella negazione di quello che ci succede attorno, viviamo nella negazione di qualsiasi cosa che vada oltre al nostro piccolo interesse ed alla nostra piccola vita, poi, dopo un altro sorso di birra, chiude poggiando la forchetta sul piatto che fa il suono universale di tutte le forchette sul piatto quando si vuole lanciare uno strale Guarda, qui è già successo e un giorno succederà di nuovo.
Identità
Non ho mai conosciuto mia madre. È stato difficile capire chi fosse. Forse nessuno impegna così tanto tempo a capire la propria di madre, quando c’è. Una famiglia non è una formula matematica perfetta, ma è perfetto qualsiasi cosa sia il risultato. Il risultato non deriva da una addizione, non si può ottenere il valore di un membro nascosto per sottrazione degli altri. Sottraendo me e mio padre dal totale non rimane niente, non è che appare mia madre.
Le persone che hanno la stabilità di due genitori non passano la vita a capire chi siano quei due. Non scavano nel loro passato. Non sviluppano la tristezza prima dell’amore. Il senso di distanza prima del gioco, della partecipazione. Non disciplinano il proprio abisso prima di accorgersi, soltanto dopo molto tempo, di avere dato per scontate tutte le proprie sicurezze. Per questo li vedo diversi, che passano lisci lisci, privati da principio di un qualche tipo di senso inquisitorio, tutta la prima parte della vita a formare un sé immaginario in risposta agli stimoli di quel materiale umano, per poi proiettarne la sintesi all’esterno, vincolandosi in un misto di abnegazione ed irriducibile propaganda, impossibile da mettere in discussione, per tutto il tempo che resta.
Sono cresciuto in campagna in una fetta di casa colonica. Ogni tanto passo da lì. Anzi, passiamo da lì, lungo la via Emilia. È il posto che mi fa più male visitare, perché il più dolce. Chiedo se si può accostare, se possiamo fermarci, di aspettare un momento. Seguo una strada e oltre i campi, totalmente sfatta dal tempo, ancora coperta in alcuni punti di intonaco ocra, la vedo, mi fermo, tremo che per me non è passato neanche un giorno e sono lì, pieno di gratitudine. Ora quella casa è abbandonata. Ha resistito fino al momento in cui ci siamo
trasferiti, trent’anni fa. Poi si è lasciata andare, circondata e sopraffatta dalle nuove costruzioni senza identità di una città che inghiotte nella sua bulimia, campo dopo campo, le zone rurali resistenti. Da lontano si può vedere il tetto squarciato. Scende dal terzo piano, prendendo forma in una voragine giù fino al secondo, con i travi e le tegole risucchiate al suo interno come scaglie e costole di un grande animale preistorico che respira ancora a fatica dalla bocca del fienile.
Di fianco a noi c’era una ditta di verniciatura gestita da un signore coi baffi ed il cappello da pescatore. Dietro, in un casolare, un vecchio falegname che faceva piccoli lavori. Oltre il fosso c’era la casa di Francesco, ricordo ancora il suo nome. Era un appassionato di colombi e pappagalli. Quando capitavo nel suo giardino potevo vederli nelle loro gabbie e tornare a casa a disegnarli. Francesco mi aveva proibito di andarli a vedere da solo. Aveva capito che sollevavo i gatti selvatici per fare vedere anche a loro i piccioni, che lui diceva si spaventavano e poi non volavano più come prima. La proprietà della casa era del padre del dottore che ha seguito gli ultimi giorni di vita di mia madre in ospedale.
Mio padre è siciliano, di un paese stupendo e minuscolo del primo entroterra. Mia madre francese, di una capitale fatta per contenere esattamente persone irrisolte e lei è appunto di origini tutte diverse che si sono trovate lì non accidentalmente. Che non è la città dell’amore, è proprio la città delle persone irrisolte, quella. Quando lei è morta mio padre smise di fare il vetraio e di credere in Dio. Non perché avesse diviso e scelto senza rispettare la regola del panino al sacco, ma perché era giustamente incazzato, almeno per un momento, immagino. Se morisse mia moglie così, senza preavviso, io qualche chiesa giusto anche solo nel tragitto casa lavoro, la brucerei. Mi riterrei anche legittimato. Lui si è limitato a metterci un cono d’ombra, qualche anno. E comunque questo lo dico io, non lo dice
lui, anche perché questo non gliel’ho proprio mai chiesto. Sicuramente io non ho mai messo un piede in chiesa o in una parrocchia e questo mi fa pensare che mio padre non ne volesse sapere di mettermi a perdere tempo a suo servizio.
Comunque, tornando a noi, il vetraio era l’ultimo dei diversi lavori che aveva imparato. Da un momento all’altro ha iniziato a fare le fiere in giro per l’Europa. Non come rappresentante di qualche multinazionale. A farle, dico, letteralmente. Faceva parte di una delle diverse squadre di operai che dal niente costruivano gli allestimenti fieristici. Mi lasciava spesso da mia zia e partiva per una settimana, a volte di più. I turni di lavoro erano massacranti ma si guadagnava bene e poteva sostenerci da solo, in barba ai servizi sociali che ci avrebbero voluto separare. Si faceva un culo così. Così, dico. Da qui a qui. Non so se capisci, se ci vedi da qui a qui. A volte era a Bologna, relativamente vicino casa, a volte invece partiva per dei posti lontani. Mettendo da parte qualcosa in tutti questi viaggi era riuscito a comprare la prima macchina per lavorare il legno che installò in un edificio di un solo piano proprio dietro casa. Era la prima di una lunga serie di macchine che avrebbe preso. Si mise in proprio, diventò falegname. Da solo. Da zero. Quell’intenzione nel fare le cose era esattamente la dimensione opposta dell’indolenza di Dio.
A volte mentre disegnavo sul tavolo della sala sentivo un grido, seguito da tantissime bestemmie. Lì capivo che gli era successo qualcosa, che non aveva fatto soltanto un errore di calcolo tagliando male del legno. Quel tipo di sbagli era caratterizzato dal rumore dei morsetti che cadevano a terra, seguito dal riunirsi di nubi scure ed il tuono di una bestemmia secca. Dalle finestre a quel punto lo vedevo correre ed arrivare in casa spingendo la porta di ingresso con la spalla, stringendo forte un dito a cui mancava un pezzetto più o meno grande, con il braccio coperto di rivoli di sangue che gocciolavano
fino al bagno dove pensava di fermare tutto con un po’ di garza e di acqua ossigenata spremuta a pioggia verso il lavandino.
Ero terrorizzato che potesse morire in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo. Anche oggi lo sono, sempre, al pensiero che gli possa succedere qualcosa. Per fare due esempi: lui fumava e aveva una moto. Era proprio una bella moto, una Guzzi. Riuscii a farlo smettere di fumare e la moto anche quella un giorno sparì. Non volevo vederlo in qualsiasi situazione di pericolo e gli ricordavo costantemente che se fosse morto mi avrebbe lasciato solo. Ero terrorizzato e lo terrorizzavo. E funzionava.
I pezzetti di dito che gli cominciarono a mancare erano un’altra cosa invece e comunque non lo fermarono, anzi, mi faceva vedere quelle mani che diventavano sempre più grandi, forti e nodose sorridendo, felice, perché ce la stava facendo. Eravamo insieme e se quello era il prezzo per la sua felicità andava benissimo così.
In quella casa gli indizi su mia madre e mio padre erano ovunque. C’erano quadri, vinili e poster di film, pipe e scacchiere, cassetti pieni di lettere scritte a mano e fotografie, alcune appese, stampate più grandi, con un vulcano scuro in eruzione, scaffali e scaffali di libri e di fumetti nella lingua con cui i nonni ci parlavano al telefono, e in altre lingue che non erano quella che parlavo con mio padre, dei macramè con geometrie strane ed ancora più strani oggetti a volte dipinti, decorati a mano. Ad esempio c’era un gran numero di bottigliette in una vetrina. Erano ornate con disegni e simboli tutti diversi, ognuna sigillata con un tappo di sughero non più grande del mio mignolo. Erano piene di cose ancora più piccole. Semi, conchiglie microscopiche e foglietti indecifrabili di ogni tipo. Una conteneva quasi tutti i miei denti da latte, tra cui anche l’ultimo caduto, che non venne giù neanche con il filo attaccato alla maniglia della porta della cantina con mio padre a tirare dall’altra parte. Quella spesso la andavo a cercare e la aprivo per guardare quelle ossicina.
Ma di tutte queste cose che negli anni hanno viaggiato da un appartamento all’altro, da un luogo ad un altro, una delle poche che non è stata riposta in uno scatolone e che non si è dispersa, mai, che non si è rovinata, mai, che è rimasta con me, sempre, perfettamente conservata, è una copertina fatta di lana, a strisce di tanti colori pieni, ognuna larga tre dita. Quella copertina non ha niente, davvero niente di normale. L’aveva fatta mia mamma, per me. Nessuno mi ha conosciuto meglio di chi ha fatto quella copertina. Nessuno mi ha capito meglio di chi ha composto quei nodi. Se la chiaroveggenza è un sottrarre all’intero ciò che è esistito, e se ad un oggetto può essere trasmessa l’essenza del suo creatore, o un suo desiderio alla chiusura dell’ultimo punto, quell’oggetto dice io ti conosco e ti amo per ciò che sei e mette in uno stato di quiete chiunque lo veda.
Fante di zucchero
Mario aveva solo trenta giorni quando fece il primo viaggio con mia nonna per il nord Italia. Di tutti i suoi figli lui è il più vivace, anzi, per essere giusti è sempre stato il più irrequieto e spericolato. Abbiamo undici anni di differenza. Sono pochi anni, siamo per età fratelli mancati. Per un periodo ha studiato a Bologna e nella casa colonica ha abitato anche lui con noi facendo il pendolare. Oggi lo chiamo zio, ho preso a chiamarlo così anche se non è necessario. Penso che lo invecchi un po’ questa cosa di chiamarlo zio, ma gli dà autorevolezza. Zio è più corto di Mario e poi è quello che è. Ma è giovane, dico, è molto più giovane di me, dentro. Si presenta pacato, ma è uno stato della materia che si è conquistato tutto, che è un cielo terso che può richiamare in un secondo l’elettricità nell’aria. È meticoloso e profondo e per questo dà a vedere di trattare con sufficienza ogni cosa meticolosa e profonda. È un porto sicuro per parlare, e mi trovo
in Sicilia, ora, e gli chiedo se può raggiungermi per stare per poco tempo insieme all’ultimo piano della casa di nonna che oggi non c’è più, da soli, perché voglio ascoltare i suoi ricordi di quel giorno e poi perché c’è un cimelio perfettamente funzionante di condizionatore e siamo in pieno agosto e fa ancora più caldo di quando ho iniziato a scrivere lo scorso mese. Vorrei avvertirlo che camminare di nuovo su dei ricordi potrebbe fargli male ma so che mi direbbe che non c’è problema. Le persone vanno sempre avvertite quando si chiede loro di ripercorrere fatti traumatici. Non lo faccio ed iniziamo. Quando è passata mezz’ora mi volto verso di lui e sta piangendo e gli vedo il dolore esplodere dal cuore alla pelle e gli occhi invecchiare di venti anni. Non ho capito che sto piangendo anche io, perché l’ultima cosa che ha detto è definitiva, senza appello. Siamo la sequenza di fotografie di un lampo che incendia di luce bianca l’aria sopra il mare. In cucina riappaiono mille ricordi al secondo delle estati passate. Vedo la nonna sfocata che prepara in senso orario pranzi e cene per tutti quanti, non ci vede, gira tra di noi proiettata in lampi di diapositive tra i fuochi, il lavello, la credenza, il frigo, i cassetti, la tavola. A differenza di Mario non ho mai imparato ad essere pacato, a controllare la mente, so solo qual è il mio limite in questa vicenda e che se lo passo posso avere un tracollo che può durare anni. Ci fermiamo. È difficile guardarsi negli occhi.
Quel giorno era lì, aveva dodici anni, mi spiega che ha la stessa età che ha oggi suo figlio più piccolo, che tra l’altro è uguale a lui. Ogni mattina andavo in giro con tua mamma, mi spiega, con la due cavalli. Doveva sbrigare le ultime faccende per fare i documenti per la tua iscrizione al nido. Nei giorni precedenti all’incidente, ti posso quasi assicurare, ricordo che ero sempre in macchina con lei. Andavamo in giro a fare spese. Lei parcheggiava, andava a comprare cose in questo o quel negozio e io rimanevo con te ad aspettarla in macchina. Quella mattina tua mamma cantava una canzone dalla radio, era allegra con te in braccio. Tua nonna che abitava con loro aveva avuto un’ulcera
alle gambe e aveva tutte le gambe fasciate, le affioravano dei rosoni che andavano come in putrefazione. La cosa si risolse tempo dopo una operazione allo stomaco. La mattina presto per la prima volta tuo padre mi chiede di andare in vetreria da lui mentre lavora. C’era da sistemare qualcosa, non ricordo, era una cosa semplice che puoi dare da fare ad un ragazzino che si annoia velocemente. E io ero contento, che era la prima volta che mi faceva fare qualcosa. Non era davvero mai successo prima. Quel giorno lo avevo seguito in vetreria, quindi. Te lo dico perché è inspiegabile questa cosa, mi spiega, tuo padre non me lo aveva mai chiesto, mai mai mai, forse sapendo che ero un po’ distratto, come vedi mio figlio, oggi.
Era passata la mattinata e siamo tornati a casa, per pranzo, a casa dai tuoi genitori dico. Entriamo nel vialetto, non sappiamo cosa è successo. Io e tuo padre siamo ignari di tutto. Io mi attardo fuori dall’ingresso. Sento la voce di tua nonna, mia mamma. È stridula e piange, urla. Riesce a dire poche parole. Dice Salvatò, venne a pulizia, Silvia, un incidente. Io mi blocco. Ascolto. Mia mamma, la nonna, non sa dire altro. Non le hanno dato dettagli, tuo padre sbianca. La polizia era andata ad avvisare dell’incidente ma essendoci solo la nonna, vedendo le sue condizioni di salute, non le dissero niente. Ci mettiamo in macchina. Conoscendo tuo padre avrebbe potuto dire Vado da solo, ma siamo insieme.
Siamo all’ospedale di Correggio, tuo padre chiede e subito gli danno delle indicazioni e se ne va dicendo Voi state qui. Io sono con la nonna e passa un tempo che per me è infinito in quella sala d’attesa, mi spiega. Sai come sono i bambini, era una attesa interminabile, quindi mi alzo che voglio sapere, voglio vedere, vado e mi addentro nell’ospedale. Faccio decine di metri, passo qualche androne. C’erano dei dottori lì e mi rivolgo ad uno di loro e ho dodici anni e gli spiego chi sono dico Sono il cognato di Sylvia, c’è mio fratello qui in ospedale e quello che mi dice, il suo modo, è davvero crudele. -È
morta- . Fa così con la mano allungando il braccio tagliandomi fuori con quel gesto. Questo mi fa È morta. Fino a poco fa so di un incidente, un incidente ti può succedere che ne so, che hai un braccio rotto, una gamba, immagino. Questo bastardo mi ha detto È morta. In quel modo.
Mio zio ha di nuovo dodici anni. Quelle cose le sta vedendo, davanti a lui, di nuovo, nel presente. Vedo che piange, voglio sospendere ma riprende a raccontare. Vedo tuo padre uscire da una porta, mi spiega. È tenuto in braccio da Andrea, tuo zio. Non riesce a camminare. Tuo padre mi vede nel corridoio e mi dice Murivi Mariù, Murivi Mariù. È morta Mario, è morta Mario. Mi passano a fianco delle persone che vanno verso la stanza di Sylvia. Sono ombre. Non ricordo più. Non so come siamo tornati a casa. Non sono stato io a dire a tua nonna, a mia mamma, che Sylvia era morta. Andiamo da te, che eri in un altro ospedale, mentre vengono portate le vostre cose da tua zia Mimma e iniziano ad arrivare i loro amici, persone, i suoi parenti con vari distacchi di tempo, che gli aerei non sono così immediati come oggi da prendere. Avevi molte ferite superficiali dovute all’esplosione dei vetri. Per due giorni hai continuato una specie di lamento che non aveva fine che l’unica cosa che avresti voluto era tua madre e invece c’eravamo noi, fitti.
Forse ho bisogno di un minuto
Due persone si innamorano, non hanno un solo pensiero. Sono felici. Decidono di stare nella città dove si sono incontrati. Reinventano una casa in campagna. È molto più semplice di quelle ristrutturate con cui forse hai familiarità, quelle di oggi, che costano una fortuna anche quando cadono a pezzi. Ogni giorno è una festa. A
volte arrivano degli amici in moto, a volte arrivano ancora più amici in macchina. C’è sempre del movimento di ragazzi giovani che vanno o che vengono, che ridono, che si abbracciano, che scherzano. C’è chi si ferma tornando dal lavoro, chi fa tappa da un lungo viaggio. Sulla tavola ci sono sempre bicchieri vuoti e pieni, segno che qualcuno è passato per salutare e che qualcuno è appena arrivato e si è messo a chiacchierare fuori, in giardino, e ad entrambi è stato offerto qualcosa da bere. Questo tipo di vita, quello di oggi, quello che è successo in questi anni in Italia, il cinismo e la cattiveria che ne sono diventate il caposaldo umano, non lo capirebbero le persone che si radunano lì. Non la chiamerebbero vita, questa.
Nasco da quelle due persone che si innamorano e che non hanno un solo pensiero. Con quel calore, quella voglia di condividere, tra quegli amici, nella campagna di quella città. Sono una prima generazione di persone che vengono da altri posti. Lui fa il vetraio. Lei si arrangia bene, era appena arrivata che insegnava lingue, poi con delle amiche inizia a lavorare in cooperativa come bracciante agricola, fino a quando non è incinta. Cercano una casa colonica in comodato d’uso. La mettono a posto. La trasformano, giorno dopo giorno, come si dice. Quella casa è raggiunta da persone con la stessa mente, con quello stesso spirito.
Stesa sul telo poggiato su delle pietre tonde un paio di mesi prima si confida, dice che è dimagrita. Ridendo, guardando il suo bambino, dice che si sente sciupata Mi sento vecchia, dice. Ed è davvero dimagrita. Non è malessere, una malattia. La sua maternità l’ha vissuta come un dono. Lo ha proprio cercato quel figlio, per molto tempo. Vigila su di lui poco distante mentre a nove mesi si alza già sulle due gambe, in equilibrio, su quei sassi tondi.
Non si è concessa un minuto da quando è nato. Ha smesso di pensare al passato. La vita è davanti a lei. È la cosa più importante. Gli dedica tutte le sue energie cercando degli strumenti alternativi alla sua
educazione tradizionale ed ai suoi ricordi di infanzia. Sa che vuole crescere una persona libera.
Due persone si innamorano e sanno che vogliono dei figli. Non uno, tanti. E li vogliono liberi, con la testa libera, e quello è solo il primo. Gli parla in diverse lingue, tutte quelle che conosce. Lo accarezza. Ballano, scherzano insieme. Gli fa ascoltare la musica. Ogni giorno è pieno, si inventa delle attività mentre cerca di leggere ed informarsi il più possibile per migliorarle, aggiungerle, aumentarle. Non vuole comprare omogeneizzati in farmacia. Vuole trovare gli ingredienti e farli lei, ogni giorno. Si sente dimagrita, Mi sento vecchia, dice mia madre, distraendosi un attimo guardando le onde del mare, ed è chiaro a tutti che le sue energie sono indirizzate verso ed assorbite da quel bambino e nessuno la può trattenere o sollevare da un modo tutto suo ed insostituibile di volere essere mamma che non ha niente di innocuamente schematico per crescere un bambino come vuole lei, prima di ogni cosa, libero.
Gli amici scherzano, dicono che quando qualcosa va storto mio padre va dietro casa e lì c’è una montagna di tronchi di legna da tagliare e che lui si sfoga su quella.
L’accetta che si abbatte su un tronco di legno. Un ceppo dopo l’altro. Questo è il suono ed il ritmo che ha preso la nostra vita da quando è morta. È diverso da altri ritmi, dai diversi battiti lungo il polso, dallo scandire della perdita di un lavandino, dal binario della metro di superficie, dal pedale di una batteria in un concerto. Ogni colpo va oltre la fine delle vene del pezzo di legno, oltre la base su cui è posato. Ogni colpo è assestato senza cercare gratificazione, è una condanna che svuota i polmoni nell’arco dell’impatto, spacca il tronco e sveglia la terra. Quello è diventato il mio suono.
Ho un anno quando non c’è più mia madre. Sono in un altro ospedale. Sono coperto di vetri, sono conficcati ovunque, ne porto ancora i segni in testa. Sono in ospedale perché ho una emorragia cerebrale. Camminavo prima che l’impatto mi facesse schizzare fuori
dal parabrezza di una Diane. Ora i medici non sanno se camminerò, se i danni siano permanenti o meno, se sarò in grado di recuperare o ci saranno complicazioni, se rimarrò paralizzato. Sono all’ospedale di Parma. Quando gli confidano questa cosa mio padre non è in sé. Mio padre in quei giorni è sospeso nel buio. Non capisce. Non sa se è capace o meno di volere aggrapparsi a qualcosa. Qualcosa comunque è davvero andato storto stavolta e quel suono si sostituisce a tutti gli altri ed inizia a scandire il tempo, mentre sono attaccato ad un respiratore. Anche se non è in sé da quell’abisso mio padre sta tenendo il ritmo. Quel suono sostituisce la speranza e ci guida verso il futuro. Un futuro a cui è sottratta la speranza è solo tempo.
Siamo da Mimma ed Andrea i primi sei mesi. Mimma è la sorella di mio padre, Andrea è suo marito, la persona che lo reggeva in ospedale. Mimma lavora in fabbrica. Ha una bimba piccola, ha tre anni e mezzo. Si prende cura di me. Il baricentro della sopravvivenza mentale è tutto lì. Le nostre cose sono trasferite da loro. Non torneremo più in quella casa. Il passaggio è netto, è un’altra casa, si capisce. Gli odori sono diversi. Le voci sono diverse e con loro le parole. Il significato di quelle due persone, insieme, non c’è più.
Mio padre, non so come e con che forza, si mette in riga, si ingegna. Ora non può sbagliare un colpo. Ogni cosa deve andare dritta. Una famiglia che non voleva avere un solo pensiero e vivere nella semplicità si riconta dopo uno schianto e c’è un uomo, vedovo, e il figlio tra la vita e la morte. I piatti da mettere in tavola sono due con le forze di uno solo per quanto il piacere, anche solo quello di mangiare, sia finito.
Mio padre ha conosciuto mia madre. Sono pochi due anni, ma ne ha capito intimamente il temperamento. Non sa come mia madre avesse processato interiormente le cose che l’avevano sospinta fino lì, il totale squilibrio della storia della sua famiglia uscita a pezzi dall’Olocausto, le sue origini in rapporto alla sua stessa vita, come
abbia trovato un equilibrio crescendo in quelle informazioni, se ci è riuscita, e sempre che ci sia riuscita come abbia addomesticato quel malessere. Che risposte abbia trovato per essere così piena di vita e di determinazione con una risata così leggera, non lo sa. Può immaginare qualcosa, in parte, ma di certo non ne parlano in quei due anni.
Ci sono cose che può dirmi solo lei. Ci sono cose che può farmi capire solo lei. Ora non c’è. Ci sono cose che può farmi capire solo lei, di lei, ed in questo modo di noi, di lei, di me, e che mi sarebbero servite in futuro, anche per questo tipo di futuro. Ci sono informazioni che vengono assimilate immediatamente. Altre vengono tramandate e per la loro sostanza digerite in più tempo. Un altro tipo di informazioni invece viene ruminato, senza soluzione di continuità. Ci vuole un primo, un secondo ed un terzo stomaco per ricevere informazioni e l’ultimo è quello che ci stabilizza. Questo stomaco, che serve a macinare e rimacinare informazioni che non sono istruzioni all’uso, al proprio uso intendo, ma istruzioni per stabilizzare la propria condizione al presente attraverso la continua elaborazione dei reticoli e delle esperienze delle generazioni passate, è vuoto per più della metà. La fame che sento, che viene con precisione da quel nucleo ruminante, è una spia sempre accesa che indica che sto andando alla deriva. Forse mia madre ha trovato il modo per liberarsi da tutto, vincendo sui vincoli mentali e sciogliendo tutti quei nodi. Partendo da zero, senza di lei, la deriva è davvero il minore dei problemi.
Mio padre ha vissuto qualche tempo nella terra in cui ci troviamo, in cui sono nato, ma non è né la sua né quella di mia madre. Mio padre e chi gli è rimasto a fianco in tutto questo e chi si è sentito di fare dei passi indietro davanti a questo dolore, ha conosciuto mia madre, ma non io. Non c’è niente che mi possa raccontare di loro, di lei, nella terra in cui mi trovo. Niente, nessun indizio, nessuna informazione, nessun riferimento.
La cronaca locale parla dell’incidente. Si può trovare nel giornale che porta la data del giorno dopo da cercare nell’archivio della biblioteca centrale in città. Nei giorni seguenti la cronaca locale viene anche ripresa da mia nonna, quella francese, che arrivata con mio nonno immediatamente dopo la tragedia legge delle insinuazioni sulla tumulazione di mia madre in Italia, nel cimitero di paese. La stampa ritrae una famiglia talmente povera che non può permettersi di seppellire il corpo a Parigi. Con mio padre devastato, dopo essersi conosciuti a Parigi, mia nonna e mio nonno invece acconsentono perché Sylvia possa essere vicino a casa nostra, qualsiasi cosa voglia dire da quel momento in poi, in un cimitero civile, vicina a noi, vicina a mio padre, vicina a me, come ultimo atto d’amore. La mia ricostruzione di questa cosa è quella che è, è stupida quanto solo i giornali di provincia possono essere e non può essere migliorata in nessun modo. Per questo so dove si trovano gli articoli di quei giorni ma davvero non voglio andarli a cercare. Oltre a quello che mi sento di scrivere qui credo sia meglio evitare di dare corda ad altri miei pensieri.
Sulla mensola del suo piccolo loculo vengono messi dei sassolini da mia nonna che chiede a Mimma di farlo quando lei non c’è e di mettere un fiore ogni anno il giorno del suo compleanno. Quando la visito ripeto quel gesto, quello dei sassolini, perché è una cosa bella che rende quello spazio diverso da tutti gli altri attorno che hanno solo fiori recisi.
Mio padre vive letteralmente come un supplizio le mie prime domande e tutte quelle che verranno in seguito che si risolveranno sempre, immancabilmente, in tre possibili modi dopo pochi minuti: il silenzio, spiegando che anche il rapporto con suo padre era fatto di poche parole e non capisce di cosa voglio parlare, di cosa ci sia da parlare; il forte pianto, che si estingue in un abbraccio che è un tentativo di contenimento che provoca una successiva mia sparizione per o mesi o anni, dal forte pianto si capisce che non si può ancora
parlare e che le ferite di entrambi non sono in nessun modo rimarginate e stiamo scegliendo di dissanguarci mentre facciamo altro; le urla, queste diventeranno terrificanti quando sono più grande e corrisponderanno ad una situazione in cui si è tutto impastato ed il prima ed il dopo è un insieme di anni ed anni ed anni di non detti e nervi scoperti curati con il sale in cui nessuno dei due è più capace di muoversi se non difendendo il poco che è riuscito a stabilizzare di sé e soltanto escludendo l’altro dalla propria vita.
Mio padre non vuole parlare. Non ne vuole parlare. Non si sentirà mai in grado di parlarne. All’inizio, a partire dal peggiore dei nuovi inizi, ha pochi rudimentali strumenti su cui fare leva già solo per trovare la forza necessaria per sopravvivere mentalmente e lavorare. Questo, possibilmente, senza farsi strappare suo figlio dai servizi sociali nel frattempo, giusto per nominare una delle cose di cui non ho avuto esperienza perché non vengono sottovalutate da un uomo vedovo sul lato pratico. Stiamo iniziando entrambi da un punto zero, il mio è anche anagrafico. Lui ha un suo passato, un passato precedente, anche. Può contare su quello. Il mio non esiste. Per farne uno mio, per capire cosa ci faccio lì, in mezzo al nulla come in una sorta di rehab in larghissimo anticipo sui tempi o come un astronauta che dopo un lungo viaggio ha perso la memoria ed è atterrato nel posto sbagliato, in una casa circondata da campi coltivati e poco altro e poche altre forme di vita, ho bisogno del loro. Ho bisogno del suo come quello di mia madre.
Sono gli oggetti allora che salvano la memoria e io sono il pioniere di questa forma di neo-archeologia domestica. Sono le cose sparpagliate per casa che si sostituiscono alle parole e che vanno studiate in camera, portandole lì di nascosto per osservarle, scriverne, disegnarle. Ogni oggetto è depositario di un tempo felice, è testimone di un momento lontano anni luce. C’è qualcosa che rende diversi i bambini e gli adulti più di ogni cosa. Un adulto passa
praticamente l’intera vita ad uniformarsi, trovando nel conformismo la chiave per costruire legami nella società e diventare alla meglio una testa di cazzo. Un bambino invece cerca un significato speciale nelle cose che ha attorno e più gli parlano di diversità, più è stimolato a pensare di avere trovato qualcosa che lo differenzia dagli altri, più è felice. Più capisce di essere diverso più è felice. Non ho idea di come il bambino diventi poi l’adulto che rinnega il suo stesso spirito ma sicuramente la mia infanzia ha incontrato negli adulti delle vere, limitate, orribilmente piatte, teste di cazzo.
Dicevo. Un bambino che capisce che qualcosa lo rende diverso è felice. Per gli adulti del luogo, invece, la diversità non è un pregio. La gente del posto chiama terroni le persone come mio padre. Le regole del gioco non sono fatte di sfumature e viene spiegato subito che siamo partiti con il piede sbagliato. Anzi, che siamo dalla parte sbagliata, nel posto sbagliato e che in sostanza siamo strani e sbagliati. Mio padre però ha la forza di un toro e non ho mai sentito neanche per scherzo pronunciare anche da un pazzo con la voglia di finire male quella parola verso di lui. C’è un limite alla stupidità della gente del posto. Questa netta discriminazione da parte degli autoctoni che ci guardano storto dovrebbe andarmi bene a confronto di come capirò che viene guardata la gente che ha le origini di mia madre in Italia. Vengono chiamati ebrei di merda. Questo cortocircuito tra il mio non sapere niente di mia madre e il fatto che qualsiasi persona tramite una sola sintetica informazione potesse pronunciare una definizione così immediata e potente ricollegandomi a lei in maniera così dispregiativa, ferendomi gratuitamente e con questa facilità, diventa paradossale. Lei non c’è, non so niente di lei, ma sembra che per tutti sia piuttosto chiaro chi sia, almeno per loro. Una ebrea di merda ed io il figlio, un ebreo di merda. Il conformismo porta evidentemente al dono della sintesi. A me invece il cognome di mio padre ed il suo cognome piace, e tanto, e mi fanno sentire in qualche modo speciale e pensare in maniera
diversa alle cose. In una landa piatta fatta di smog e nebbia in piena campagna sentirmi diverso diventa la più grande ricchezza e coltivarla diventa l’unico modo per tirarsi fuori da lì, ma ci vorranno un sacco di anni.
Parigi, 5
È difficile che Christian si scomponga ma da quando l’ho informato dei servizi segreti all’accampamento dei tibetani fuori Parigi è molto teso. Non è il fatto che sia teso che mi rende teso a mia volta, ma che con questa persona insieme ad altre io abbia fondato tre mesi prima della pandemia, quasi due anni prima, una associazione per la realizzazione di progetti di arte e pedagogia per rifugiati ed infanzia in difficoltà e che problematiche di questo tipo, anzi, problematiche anche molto peggiori di questa, possono essere all’ordine del giorno ed abbia reagito come se gli stesse per piombare in casa uno squadrone della morte o peggio, che sentisse la cosa come che riguardasse solo lui e la sua piccola vita del cazzo.
Al telefono mentre gli spiego di nuovo quello che è successo capisco che lo squadrone della morte lo preoccupi molto poco. Quello che lo preoccupa è la seconda questione. Quella un po’ più da persona annoiata dalla vita e anche vigliacca, due cose che mi mandano in bestia e che non tengono per niente conto di quello per cui, almeno gli altri, si sono messi a servizio con altruismo, verso qualcosa di appena più grande della loro piccola infinitesimale vita e per cui ho dato tutto il tempo degli ultimi due anni, le mie capacità che su Parigi possono incontrare problemi risolvibili, fosse anche una indicizzazione dei servizi segreti, appunto, ma su un paese molto più lontano in cui le cose possono farsi molto velocemente più pericolose questo suo modo di preoccuparsi esclusivamente di sé stesso non
può esistere. Penso al progetto in Cambogia che è stato sospeso e poi annullato un anno e mezzo prima per via della pandemia in corso. Penso ad altri progetti, successivi a questo qui, di questo estemporaneo passaggio a Parigi. Spiego la mia posizione, non capisce. Spiego che la mia posizione è lineare. Spiego che credo sia meglio chiudere l’associazione se la sua risposta comunque è cagarsi addosso per una cosa che al massimo colpirebbe me e di cui non sono preoccupato. Non capisce. Gli dico che se dovessi riuscire a realizzare dei nuovi progetti voglio delle persone su cui poter contare al cento per cento e non sentirne la paura per via della prima difficoltà che viene in superficie.
Tre giorni dopo l’appuntamento è in pieno centro, al secondo piano di un bar poco affollato che fa sandwich. È stato diramato a tutti e chi in presenza chi in videoconferenza è lì. Christian ha con sé i documenti per la chiusura della associazione. Nessuno di quei fogli spiega che è un vigliacco. Semplicemente dopo due anni di attività l’associazione viene chiusa. Firmiamo tutti davanti al primo caffè del mattino, poi Christian si alza e se ne va indispettito, lasciando una scia di brontolii trattenuti tra lunghe falcate. Metto i palmi delle mani di fianco alla bocca ed urlo: Bravò Christian! Vraiment, la classe! Et quel courage! Rimango con JL che di questa cosa è totalmente all’oscuro ed è decisamente stupito e quando ne spiego i dettagli al secondo caffè che ordiniamo si mette a ridere perché appunto, per fortuna, la questione della matta francese legata ai servizi segreti è una cretinata e se mai ci fosse stato qualche problema avrebbe risolto lui molto velocemente. Però i vigliacchi e le cretinate sono cose pericolose e lavorare con persone che non vogliono dedicarsi integralmente agli altri altrettanto.
Usciamo, piove. Non conosco il quartiere ma voglio camminare e accompagno JL alla metro per poi prendere un vicolo, poi un altro ed un altro ancora e mi trovo davanti ad un negozio che fa angolo, si chiama Aaapoum Bapoum, sembra una fumetteria ed ha del
bellissimo materiale in vetrina. Piove molto forte, entro. Entro e non voglio uscire più.
Ritornello
È morta per salvarti. Senti, io lo so che è la cosa che fa più male, però è un po’ che ci stai girando attorno di nuovo. Non prendertela, non sto dicendo che sei prevedibile, -la tua parte maschile è terribilmente prevedibile, questo si-, però me lo aspettavo di rivederti. Volevi di nuovo arrivare qui, a che qualcuno te lo ricordasse. Questa è l’informazione che volevi. Eccotela, te la ripeto: è morta per salvarti.
Fai sempre così. In tutti questi anni ormai il tuo è diventato un disciplinare, anche se assurdo, e io ne faccio parte. Se non te lo avessi visto fare altre volte proverei compassione per questa tua amnesia. Riesci a rimuovere questa informazione, poi passano gli anni, la cerchi di nuovo e quando sei davanti a questa cosa che ti è impossibile gestire riprendi con un nuovo ciclo. Fai tutto da solo. Ricezione dell’informazione, espiazione e cancellazione, autodistruzione. Sei talmente efficace che praticamente è da considerare il tuo primo lavoro. Non rimane una pietra sull’altra di quello che hai costruito quando hai terminato. Però c’è da ammettere che a modo tuo riesci a slegartene. Brevemente. Ma a che prezzo?, per cancellare temporaneamente una informazione dalla mente fai tabula rasa fino al punto che non sai più neanche chi sei. Certo, sembri diverso. Ti comporti in maniera diversa e le persone non ti riconoscono più, perché sei felice per un po’, ti senti libero finché dura, finché qualcosa non ti torna di quella felicità che il tuo senso di colpa che vigila su di te ti indica come falsa e posticcia. Allora ti metti
a cercare di nuovo per ritrovarti bianco in faccia davanti alla stessa- identica-informazione che non sai mai come affrontare. Hai idea di quante volte ci siamo trovati qui, di quante volte ci siamo fatti lo stesso discorso?
Qualcuno ha dato la vita perché tu potessi continuare a vivere. È stata tua madre. Deal with it.
Non sei in grado di convivere con questa informazione. Non è facile, credo che nessuno ne sarebbe in grado. Non te ne faccio una colpa. Però è così. Tua madre è morta per salvarti. È scappato detto da qualcuno quando eri piccolo. Non avrebbe dovuto, è stato crudele, certamente, ma sei tu che hai insistito per sapere.
È vero. Si è allungata verso di te un momento prima dell’impatto. Lo sterzo le ha sfondato lo sterno. Non c’era niente da fare. Il volante le è entrato nel torace. Lei è morta, tu sei sopravvissuto. Tu sei qui. Sei vivo. Lei no. Ha concluso la sua vita senza un rimpianto. Puoi dire la stessa cosa di come stai portando avanti la tua? Nessuno può spiegare come abbia avuto quella prontezza di deviare di poco il tuo corpo. È una azione lucida eseguita in un attimo, in meno di un secondo. Saresti finito sull’asfalto altrimenti. Saresti morto. Ma ci è riuscita. Ci è riuscita. Questa è la cosa importante per lei. Per lei, capisci?, non per te. Proteggerti non è stato un riflesso, una azione che avrebbe negoziato conoscendone le conseguenze. Lo ha fatto sapendo perfettamente che si stava sacrificando per te. Questa era la sua volontà. Sylvia ha vissuto il suo essere madre come un dono e quello a cui ti trovi davanti ogni volta e che non riesci a capire e che non riuscirai mai a capire è accettare il suo gesto alle sue condizioni, non alle tue. Non-alle-tue-condizioni.
Senza l’esperienza per capire cosa sia una madre, una persona come lei poi, sei diventato il bersaglio del tuo stesso senso di colpa. Non è
quello che voleva per te. Fattelo dire. Questa dinamica, questo tuo vagare attraverso il tempo che ti resta tra pensieri e ricordi che si fanno sempre più persistenti nello sforzo di non definire niente, sfuggire alla gravità di tutto, questo tuo elemosinare l’amore incondizionato che poteva darti si, esattamente: solo lei, questo tuo vivere sotto le possibilità che ti sono state date è la più grande offesa al suo ultimo gesto.
Tu pensa a tuo padre che non sa neanche capire come comportarsi con te, da sempre.
Poi ok, vero, non ha mai davvero davvero davvero capito un cazzo di te ed in un altro caso sarebbe una cosa da attribuire a questioni generazionali, ma voi due davvero proprio non vi capirete mai. Che tu pensi pure che ti odia, proprio per quel gesto di tua madre, e forse è anche vero che ti maneggia come un rifiuto radioattivo, ma tu però sei anche scemo col botto. Dove finisce una cosa ed inizia l’altra non si riesce a capire con voi due.
Parlare di tua madre ti ha sempre destabilizzato. Basta che qualcuno prenda il coraggio di avvicinarsi a te per parlartene che lo accartocci con lo sguardo senza rendertene conto. Lo facevi anche da piccolo. Ti ricordi quando ti dicevano Che bel bambino, dov’è la tua mamma? e tu rispondevi Mia mamma è morta!, pietrificando la persona? Destabilizzerebbe chiunque perdere la mamma ad un anno. Ma è questo che non hai mai superato, che ti rende catatonico alle cose del mondo. Questa informazione quando la incontri ti annienta e quell’abisso pieno di rabbia ti si rivolta contro. Succede ogni sette anni, se sei fortunato ogni dieci. È il modo in cui l’hai sempre interpretata che ti porta a fare le tue cazzate, a metterti in situazioni di pericolo che ti obblighino a tenere l’attenzione sulla tua sopravvivenza per neutralizzare il dolore o a chiuderti completamente in te stesso per un tempo infinito. Sei in pace in mezzo al caos che metti insieme per qualche anno, e sei davvero bravo a mettere insieme una vita senza capo né coda, poi però torni lì. Perché come ti
dicevo prima sei proprio scemo. Il tuo è un ciclo davvero di una cretinaggine infinita. Ma non è morta per colpa tua. Ci hai fatto una religione su questa cosa, sulla sua morte, ed è tua la scelta, non sono qui per sconfessarti, sono qui perché secondo me sei cretino e un po’ ti devo aiutare altrimenti davvero non ci salti fuori. E neanche io ci salto fuori, che sono parte di te.
Non serve a niente spiegartelo un’altra volta. Te lo ripeto. Non hai nessuna colpa. Tua mamma forse era distratta e ti guardava preoccupata, forse piangevi. Ti avrà cantato una canzone, una di quelle che dopo Jocelyne allegava nelle lettere a tuo padre e che poi lui ti ha iniziato a cantare in francese per farti addormentare.
Te la ricordi questa?
Je te tiens,
Tu me tiens,
Par la barbichette, Le premier
De nous deux Qui rira
Aura une tapette!
Questa ti faceva ridere tantissimo. Vedi? Stai ridendo anche ora! Bravo. Che bravo che sei. Sei davvero bravo. Ora però segui la canzone. È la stessa che ti cantava in macchina. Non concentrarti sulla morte. Cercala, trova qualcuno che ti possa parlare di lei liberamente.
Je te tiens,
Tu me tiens,
Par la barbichette, Le premier
De nous deux Qui rira
Aura une tapette!
Ora dormi. Sei davvero stanco.
Je te tiens,
Tu me tiens,
Par la barbichette
Decide l’anima
Arcangela quindici anni fa mi chiese di andarla a trovare. Aveva una cosa diceva da restituirmi, ma che potessi ricordare non avevo mai lasciato niente da lei. Arcangela è un personaggio che ho sempre adorato della mia famiglia. Credo che siamo cugini di secondo grado, o qualcosa di simile. Lei aveva una piccola putia, una sorta di konbini, vendeva alimentari e prodotti per la casa sulla via principale del paese da cui mio padre era emigrato con la sua famiglia. Suonai alla porta e dopo un piano ripido di scale per raggiungerla, dopo esserci salutati tra baci sulle guance, battute varie a cui sono seguite risate ed altre divagazioni, mi ha fatto accomodare nella piccola sala dicendomi di aspettarla qualche minuto. Al suo ritorno aveva un paio di grandi buffi occhiali rosa nelle mani, li teneva con la stessa importanza con cui si poteva tenere una reliquia. Più si avvicinava lungo il corridoio più sentivo le costole arricciarsi dentro ai polmoni e mancarmi l’aria.
Me li allungò, me li mise in mano e mi disse che appartenevano a mia madre, che li conservava da molto tempo. Non so come descrivere quel momento, quel tipo di dolore, ma la luce colore del miele di quella stanza per un tempo brevissimo sparì, diventò tutto nero. Scoppiai a piangere. Lei voleva raccontarmi delle cose, pensava che potesse sicuramente farmi piacere, ma scesi le scale, presi la porta e scappai, scendendo dalle stradine esterne evitando la folla della processione annuale della santa patrona del paese.
Negli anni seguenti non parlammo mai più della cosa. Questa estate ho chiamato Arcangela per sapere se fosse a casa e sono passato a trovarla. Le ho spiegato che stavo cercando faticosamente di riportare alla memoria mia madre ma non riuscivo ad andare oltre l’incidente. Anzi, che per quanto volessi scrivere di lei, di lei e di nient’altro, erano gli eventi tra l’appena prima e l’appena dopo quell’incidente a farsi avanti e con prepotenza e che mi rendevo conto di sentirmi in pericolo come quella sera, come quando uno prende un aereo e si accorge di qualcosa di cui non vorrebbe per niente accorgersi guardando dal finestrino, che quello che lo separa dal vuoto esterno è la sottile lamiera della fusoliera, un po’ di plastica e poco altro. Probabilmente per il fatto che ha una pazienza infinita ed un’anima solare e il tempo l’ha resa molto devota è sparita un attimo ed è tornata con dei pacchi di fotografie di quei tempi e dopo averle guardate insieme mi ha detto Forse tu non ti ricordi, ma ti avevo suggerito anni fa di parlare con la tua madrina, è una persona che non hai mai conosciuto. Lei ti può parlare di tua mamma. E mi ha dato il suo numero di telefono, di nuovo. Perché sicuramente quel numero me lo aveva già dato. Ho aspettato tre settimane ed ho chiamato Lorenza. Le ho spiegato chi fossi e dopo un’ora al telefono era da me, in sala, a riprendere quello che da subito si capiva fosse un fiume limpido fatto di ricordi. Una persona, finalmente, mi stava raccontando semplicemente di mia madre.
Aveva un anello, lo teneva all’indice.
Era una cosa insolita un anello all’indice.
La montatura portava un ametista.
Le piacevano tantissimo i fagiolini.
Aveva molte tute. Hai presente le salopette?
Era magrissima e faceva un ragù meraviglioso. Non so perché mi siano venute in mente queste due cose insieme. Però il ragù come lo faceva lei era davvero una roba da leccarsi i baffi. Non ci metteva molta carne. Mi ricordo ancora le carote, che le faceva cuocere a pezzi grandi.
A volte ti tenevo io, anzi, ora che ci penso ero solo io a tenerti quando lei era fuori, ma tu aspettavi lei per mangiare.
Con me non ne volevi sapere.
Mangiavi solo con lei.
Tua mamma disegnava sempre Pierrot. È un personaggio delle maschere ed ha una lacrima sul viso. Te lo dico perché la cosa particolarissima è che tu sei nato con una voglia a forma di lacrima, esattamente nello stesso punto.
Eravamo amiche. Amiche amiche amiche. Aveva tutta una sua serie di cose che la entusiasmavano. Qualcuno ti ha mai detto che tua madre faceva parte di un gruppo che ha fondato il biologico a Reggio
Emilia?, era il primo punto biologico in città. Erano i precursori. Ora tutta quella cosa è molto cambiata, è diventata un’altra cooperativa ma è stata lei a fondarla. Erano troppo puri perché non venissero presi di mira dagli avvoltoi che volevano lucrarci e basta. Quelle persone comunque se volessi cercarle non ci sono più. Le persone che lei conosceva, che lavoravano con lei, quelle non ci son più. Io avevo diciotto anni e lei ventotto. Lei era già una donna per come la vedevo io. Sentivo che aveva vissuto molte vite.
Era bravissima a lavorare la maglia. Mi ha insegnato a lavorare il macramè. La sua manualità non si vedeva qui, dalle nostre parti. Tua mamma era avanti. Sai cosa vuol dire quando si dice che una persona è avanti? Quello che faceva qui era fuori posto. Qui c’era e c’è gente rigida, chiusa e razionale. Si fa tanto con la razionalità, serve, ma con la chiusura mentale di questa gente non ci fai davvero niente. Fanno solo per tornaconto. Fanno solo se gliene viene in tasca. È avvilente, anche oggi. Puoi capire che era difficile trovarsi tra simili, qui. Tra persone spontanee, aperte e soprattutto libere. Credo che questo la rendesse malinconica, come il suo Pierrot. In una persona sensibile è normale che ci sia della malinconia. Le persone così non sono capite, non sono comprese. Non sono sicuramente capite in questa terra, da queste persone. Le persone qui possono sembrare simpatiche, ma sono spietate peggio che gli assassini.
È lei che ti aveva fatto il lettino che ricordi, lo aveva dipinto lei con quelle figure. La casa che non hai mai visto, quella che venne lasciata subito dopo l’incidente è lei che l’aveva arredata e aveva davvero gusto perché dentro era stupenda. Aveva fatto un lavoro molto semplice, ma accogliente, bello. Ricordo una vetrina e dei divanetti in bambù. No non è bambù. Come si chiama, dico, il rattan. Non era rattan, scusami. In vimini!, ecco. Poi quando partiva per Parigi andava sempre al mercatino delle pulci e tornava con delle cose incredibili da trasformare in altri oggetti.
So che con me non vuoi parlare dell’incidente ma per me fu una cosa molto forte. Non sono più riuscita a guidare fino a quarant’anni. Ogni volta che ho potuto ho evitato, fino a che mi sono trasferita in Appennino e lì la macchina ci vuole e mi sono forzata.
Era così simpatica, guarda, mentre mi parli la vedo ridere. Per immaginare tua mamma devi capire una vera ribelle, era così vivace e stimolante. Ma soprattutto era fiera. Era fiera di quello che faceva e di come riusciva a farlo. Era una donna che non si sarebbe mai venduta e che faceva le cose ascoltandosi, senza chiedere aiuto a nessuno. Tu hai così tanto di Sylvie che non te ne accorgi. Questo l’ho visto cercando in quello che fai cercandoti su internet.
Ci sono persone che basta che dicano una parola e ti fanno ridere, con altre basta uno scambio con gli occhi. A noi bastava quello. Tua mamma aveva una risata contagiosa, squillante. Non rideva a metà, con la bocca chiusa, in maniera tirata e trattenuta.
La sera ricordo che giocavamo a poker con gli altri. Non volevamo vincere ma ci veniva facile barare perché nessuno se ne accorgeva. Baravamo tutta sera trattenendoci dal ridere. Lo dicevamo alla fine quando si mettevano via le carte e si arrabbiavano tutti e nessuno poi voleva giocare con noi i giorni successivi.
Io ero più giovane di lei. Avevamo dieci anni di differenza ma mi incoraggiava sempre. Voleva coinvolgermi a fare cose insieme ma io ero troppo giovane o forse ancora bloccata sulla creatività. Ero troppo piccola per capire cosa volessi fare al tempo. Quando sono uscita di casa però è lei che mi ha accompagnato. Tua mamma aveva avuto la forza di andare via di casa a sedici anni. Non so se capisci. Io ero uscita di casa a diciannove e mi sentivo una bambina. Lei praticamente a sedici anni andò sola da Parigi in un kibbutz in Israele. Pensa lei, che tipo. Quella esperienza aveva a che fare anche
con il suo primo marito immagino, non la ricordava con piacere e non se ne parlava tra noi.
L’ho sempre sentita vicina. Era di una generosità che io davvero quasi non capivo. Una mattina ti ho tenuto io perché potesse sbrigare delle faccende ed è tornata con due tazze bellissime in terracotta. Solo perché ti avevo tenuto una mattina, capisci?, doveva sempre fare qualcosa per te, doveva sempre riconoscerti qualcosa, gratificarti.
Quando mi ha chiesto di farti da madrina ero rimasta davvero stupita. Allora io non frequentavo nemmeno la chiesa ma lei era stata molto toccata da un uomo, da un prete in montagna amico di tuo padre, un uomo con una grande barba. Aveva trovato qualcosa in lui, era una donna troppo, troppo indipendente per farsi plasmare o manipolare. Qualcosa, sicuramente, l’aveva mossa a questa decisione. Non potevo rendermi conto di quello che mi stava chiedendo comunque, sono sincera, a quel tempo non davo valore a quelle cose. Ora capisco che cosa significa, è un po’ come se tu facessi una promessa ad una persona. E io non ci sono stata. Non mi rendevo conto del significato di quello a cui mi aveva chiesto di partecipare. Mi dispiace.
Comunque loro si sposarono in quella chiesetta, da quell’uomo. Lei aveva una camicetta bianca. Era una giornata di sole, con molto sole. Erano felici. Lei era molto felice ed anche tuo padre. Mi ricordo, per spiegarti che soggetto fosse, che mentre andavano a sposarsi la macchina si è fermata lungo la strada, lei è scesa e ha improvvisato lì il suo mazzo, con i fiori di campo attorno. Le piaceva giocare con tutto. C’erano cose davvero spontanee per lei. Dipingeva, costruiva, si ingegnava, tingeva i tessuti. Era sera tardi l’ultima volta che l’ho vista. Ero di fretta perché avevo degli appuntamenti e mi ricordo che stavo per uscire. Ho visto per l’ultima volta tua mamma lì, davanti alla porta d’ingresso. Tua mamma aveva addosso la camicetta ricamata che aveva usato per il matrimonio e in uno dei suoi esperimenti quel giorno l’aveva tinta di nero. Nero-nero. L’aveva indossata per
sposarsi e me la sono ritrovata davanti, quella sera, il giorno prima dell’incidente, con quella camicetta tinta di nero. Nero-nero-nero dico. Ho sentito qualcosa. Non ho badato in quel momento ad una forza che mi tratteneva lì. Per tutto il tempo, dopo l’incidente, ho sentito che avrei dovuto ascoltarmi, che avrei dovuto trattenerla inventando una scusa e non lo so, parlare, rimanere con lei. È difficile spiegarti. Il giorno dopo quando ho ricevuto la notizia ero convinta che avrei potuto salvarla. Questa cosa non mi ha dato pace ma ora penso che sia l’anima che decide. Decide l’anima e non possiamo fare niente. Certe cose è come se le sapessimo ma non possiamo fare niente per evitarle, per correggerle. Io non potevo fare niente.
Quando è successo tutto, mentre gli altri erano con lei, c’ero io con te in ospedale. Tu eri tutto ferito, ma quando c’ero io con te non hai mai pianto.
Non sono riuscita ad andare al funerale. Volevo ricordarla e la ricordo ancora nella sua risata. E tu hai una parte di lei. La vedo con chiarezza questa parte di luce di tua madre. Questa esplosione di vita che aveva c’è e non mi chiedere come cosa perché: te l’ha trasmessa ed è tua, e basta. Hai già sofferto abbastanza Emanuele. Prima si vive e poi si capisce. Prima devi vivere, credimi. Anticipare i tempi come hai fatto per cercare delle risposte ecco, capisco perché lo hai fatto, ma avrà senso più tardi.
Posso dirti che tuo padre e tua madre erano davvero innamorati. C’era gioia tra loro come in questo momento storico si è dimenticata. Erano connessi. Tua mamma era davvero una persona molto avanti e forse era lei che intuitivamente tra i due capiva di più l’altro. Forse non mi capisci in questa cosa, ma tu e tuo padre siete dei maschi e i maschi hanno lo stesso identico problema. Se tua mamma fosse qui adesso mi capirebbe al volo, ci scambieremmo uno sguardo come
quando ti parlavo del nostro modo di giocare a poker e si metterebbe a ridere, ora. Credimi: tua mamma era davvero molto avanti.
Sono gli anni che ti fanno capire certe cose. Vai alla ricerca di quello che senti, di quello che davvero senti, e non preoccuparti. Vivi la tua vita fuori dai limiti che ti sei fatto, dal tuo giudizio e quello degli altri. E se ci riesci, da questa rabbia, che non ti appartiene. Ma di questo se vuoi ne parliamo un’altra volta. Ci tengo.
Tu non hai memoria. Non puoi averla.
Il dolore che hai visto da piccolo in tuo padre è quello a cui hai legato al significato di amore.
Tra di voi si deve essere sovrapposto qualcosa oltre al rapporto padre-figlio. Penso ad un vincolo simile alla solidarietà per la sua sofferenza di adulto che tu non puoi avere capito, ma che hai abbracciato senza avere le difese necessarie.
Hai raccolto il dolore di tuo padre, quella cosa che hai visto che lo faceva soffrire e lo hai trasformato in una forma di rabbia. Tutto questo era fuori dalle possibilità di un bambino.
Hai assimilato la sofferenza di tuo papà e l’hai trasformata in rabbia.
Ne parliamo un’altra volta. Ci tengo.
Parigi, 6
È l’ultimo giorno a Parigi. Non ho ancora visitato i miei nonni al cimitero. So dove si trovano ora ma ho paura di incontrarli. Ho l’ultimo appuntamento con Farida prima di partire. Dopo, mi dico, ho il tempo per prendere la metro e andare al cimitero fuori città. Ci diamo appuntamento a Belleville. Appena ci vediamo è la prima cosa che mi dice che ha passato l’esame. Può stare in Francia, ci vorrà solo un po’ di tempo per i documenti. È un’ottima notizia. Pago i due caffè. Usciamo. Forse non capisce la felicità che ho per lei. La abbraccio, le auguro buona fortuna, la saluto e scendo le scale della metro. Cerco il cellulare per aprire Maps e capire come arrivare da lì al cimitero. Capisco che non me la sento. Scrivo ad Elise. Mi risponde subito. Le dico che sono da loro nel giro di pochi minuti, un quarto d’ora al massimo, per salutarli prima di partire. Apro di nuovo Maps, giro con il pollice e l’indice la mappa della città seguendo il primo tracciato consigliato. Prendo la metro in direzione opposta. Sono da loro. Louise è nata, sono tutti appena tornati dall’ospedale e Jocelyne, la migliore amica di mia madre, quella con cui è andata dalla Francia alla Sicilia, è lì, è appena arrivata da Toulouse per conoscere la sua nuova nipotina e aiutare nei primi giorni Elise ad Achraf. Jocelyne ed io andiamo a prendere Anais a scuola, è una lunga camminata che si fa un po’ più lunga al ritorno, con Anais che si ferma davanti alle vetrine di vari negozi. Jocelyne non ho idea di quanti anni possa avere ma è decisamente più in forma di me e cammina a passo svelto. È una bella giornata d’autunno, non ci vediamo da tanti anni e parliamo di un po’ di tutto. Il suo buon umore e la sua risata che è una risata di cuore, sincera, mi rende felice. Si fa tardi, avevo bisogno di stare con loro. Saluto tutti e mi avvio verso la metro.
Scrivo a Fabrice. È un po’ stanco, si è alzato prestissimo per andare a lavorare in radio. È il mio ultimo giorno a Parigi, domani parto. Lo raggiungo ad Olympiades. La sua compagna deve correggere un sacco di bozze. A giudicare dalle sue espressioni gli scrittori che corregge per quel nuovo progetto editoriale scrivono davvero male. Capiamo che è meglio uscire subito di casa approfittando del gatto che cerca la sua attenzione. Fabrice mi porta in un ristorante cinese poco distante da casa. Mi garantisce che è autentico, ci è già stato quando si sono trasferiti nel quartiere e la cucina è davvero eccezionale. La volta prima, un paio di settimane prima, non si era sbagliato. Il posto dentro è deserto, c’è molto personale e un signore anziano ci fa sedere consegnandoci dei menù con dei piatti che non avevo mai mangiato prima. Siamo affamanti, siamo stanchi e siamo curiosi. Proviamo due piatti a testa. Quando usciamo Fabrice si scusa lungo tutta la strada che si ricollega al boulevard, Deve essere cambiato qualcosa durante i due anni di covid, ripete ogni qualche metro. Ridiamo. Gli dico Mi ricorderò di questo ristorante cinese per sempre. Facciamo un giro tra i palazzi di recente costruzione e ci fermiamo in un altro ristorante, tutto quello che voglio è mangiare dei buoni ravioli l’ultima sera a Parigi. Les Olympiades forse è il mio quartiere preferito. Non so spiegare perché. Può permettersi di essere il mio quartiere preferito perché tutta attorno c’è Parigi forse. Come città a sé sarebbe solo un luogo distopico forse. Un avamposto lunare. E credo che sia meravigliosa proprio per questo. Fabrice ha gli occhi lucidi, è davvero stanco e forse un po’ brillo. Mi accompagna alla metro con le ultime forze. Ci salutiamo lì. Mi mancherà tantissimo.
Abaco di emoticon
Dopo questo incontro mi viene a trovare mio padre. Gli abbiamo lasciato le nostre piante mentre eravamo in Sicilia e prima di tornare a casa sua in montagna passa velocemente da qui, anche se presto lasceremo questa casa senza sapere esattamente dove andremo e quindi gli darò di nuovo le stesse piante, più quella grande, quella che ho lasciato alla vicina del primo piano che dopo tre settimane ce l’ha restituita che è più alta di mezzo metro e con un sacco di foglie in più e mi è evidente che quella pianta non voglia più tornare qui e con quelle stesse foglie, probabilmente urlando Voglio stare con la signora del primo piano maledetti bastardi lasciatemi lì con lei!, si aggrappa all’ingresso mentre la trascino in sala, di fianco alla finestra e ad una riproduzione non originale di Gamera che ho comprato ad un tatuatore di Bangkok passando dal suo studio anni prima.
La mia madrina mi ha raccontato molte cose, anche sulla mia famiglia, alcune che vanno verificate, altre che vanno doppiamente verificate. Una di queste è che da quel posto in cui c’è sempre del movimento di ragazzi giovani che vanno o che vengono, che ridono, che si abbracciano, che scherzano e c’è chi si ferma tornando dal lavoro, chi fa tappa da un lungo viaggio, pare che tra quelli che si sono fermati una notte, appunto, ci sia Peppino Impastato. Una cosa che va decisamente triplamente verificata e che mi premuro di verificare triplamente facendo qualche telefonata. Allora mentre è lì che se ne sta per andare gli dico che ho incontrato per la prima volta la mia madrina, che abbiamo parlato di cose e gli chiedo se ne sa qualcosa di questa cosa precisa. Non gli ho chiesto di Sylvia, di mia madre. Gli ho chiesto di altro, qualcosa di nuovo, della sua giovinezza. Il mio approccio è sempre stato diretto con lui ed è
sempre fallito. Succede qualcosa di nuovo. Si ferma davanti alla porta di ingresso mentre sta per uscire, si volta e gli vedo il viso divertito che sembra un abaco che macina calcoli in forma di ricordi e mi dice Secondo me parlava di anni in cui non c’ero ancora o eravamo andati ad abitare per conto nostro, lì c’era del gran movimento, dovresti chiedere agli zii, ma ne passava di gente dalla casa in campagna in cui vivevamo tutti assieme, si parlava, ci si divertiva, passavano anche persone di Lotta Continua quindi non so dirti, devi provare a sentire uno degli zii. Allora lo guardo e gli faccio Scusa, ma tu perché non mi hai mai raccontato di queste cose?
Continuando a tenere acceso un pallottoliere immaginario che sembra essersi riacceso, mi guarda senza capire che la naturalezza con cui ha corrisposto una mia curiosità per me è una vera epifania, una cosa grande dico, si volta, gli dico come sempre di andare piano in macchina, mi dice il solito Si, si, prende l’ascensore, chiudo la porta e mi batte il cuore in modo diverso.
Verso sera la nostra chat di whatsapp attraverso cui comunichiamo da qualche anno incontrandoci lì, a metà strada, con messaggi molto prudenti e ristretti, si riempie di una lunga storia, un suo ricordo, che deve avere scritto con le sue dita giganti dalla tastiera del cellulare.
-Non ero mai stato a Parigi, era la prima volta. Tuo nonno era un bonaccione, un uomo simpatico, era quasi in pensione quando tua mamma ci ha presentati e forse per conoscermi meglio mi dice C’è il mercato oggi a Clignancourt, se vuoi ci andiamo a fare un giro, così, per passeggiare. Io gli rispondo Con piacere, va bene. Una vocina dietro le mie spalle dice Allora veniamo anche noi, erano tua nonna e tua mamma. Quindi partiamo tutti e quattro e anche se l’intenzione era appunto fare una passeggiata una volta arrivati tua mamma e tua nonna si perdono immediatamente in mezzo alle bancarelle.
Tuo nonno ed io non siamo molto interessati al mercato e lui mi propone di visitare il quartiere, cosa che accetto con curiosità molto volentieri. Robert, tuo nonno, mentre gironzoliamo mi racconta della
sua vita, del suo lavoro e della sua infanzia trascorsa proprio tra quei vicoli finché ad un tratto si ferma davanti alla vetrina di un negozio chiuso. Si avvicina e con la testa va talmente vicino al vetro che si appanna tutto e con una mano lo pulisce e con l’altra fa ombra tra gli occhi ed il vetro. Insisteva a guardare, sembrava che ci volesse entrare dentro ed è come se cercasse qualcosa anche se si capiva che quel posto era da tempo, da tanto tempo, che era chiuso. Quindi si gira verso di me e mi accorgo che il suo volto è cambiato. Ha le braccia penzoloni, la faccia è quasi spaventata. Il sorriso che fino ad un momento prima gli rallegrava il viso è sparito. Gli occhi sono stretti, come se stesse gridando e il singhiozzo sento che gli muore in gola. Questa era la sartoria dei miei genitori prima della guerra, mi dice. Arrivarono le camionette e subito dopo il rumore dei tacchi ed in una lingua che neanche conoscevano gli intimarono di lasciare stare quello che stavano facendo e di seguirli. Li caricarono e di loro non si seppe più niente. Solo dopo la guerra si seppe che il loro viaggio era finito a Birkenau.-
Dopo alcuni giorni, dopo esserci inviati alcuni messaggi sulla vita del nonno in cui gli confido che l’ho sempre sentito come un uomo taciturno ed in cui mio padre mi scrive altri brevi ricordi sulle corse dei cavalli a cui il nonno lo aveva trascinato, della felicità quando una volta lo caricò sulla sua moto in Italia per fargli fare un giro anche se aveva un po’ di fifa, gli chiedo come avesse reagito davanti a quella situazione. Da una parte perché quelli erano decisamente altri tempi e per immaginarli comunque parto da stereotipi di uomini come dire, che per educazione ricevuta sono reciprocamente distanti, dall’altra perché dubito che un giovane ragazzo italiano fosse mai venuto a contatto con un testimone dell’Olocausto prima di quel momento.
-Non ricordo cosa ho pensato.-, mi scrive. -Posso dirti che ero completamente spiazzato.-
-Fino a quel momento il dramma della deportazione lo avevo vissuto in maniera marginale, una cosa decisamente lontana. Quella cosa toccava la mia vita solo per quello che se ne sentiva raccontare dalla televisione o in qualche film. In quel momento ho capito il dolore nascosto, completamente impercettibile, che quella persona e quel popolo si portava dentro con dignità. Tuo nonno mi ha permesso di entrare nella sua anima, ci siamo capiti senza dire niente. Si è ricomposto, ha blindato di nuovo dentro di sé il dolore che si portava dentro da sempre e abbiamo continuato la nostra passeggiata.-
Ormai è sera, mi scrive che lì sono quasi a tavola. Rispondo che anche qui devo iniziare a cucinare qualcosa e ci salutiamo. Mi manda una emoticon con la mano che fa l’ok. Gli mando una mano che fa la V di vittoria, una mano che fa le corna, due mani in preghiera e di nuovo una mano che fa la V di vittoria, una mano che fa le corna e due mani in preghiera di fila che spero lo facciano sorridere.
Tanatocatapsia
Oggi avevo un appuntamento a mezzogiorno. La fine dell’estate corrisponde all’incarnazione stessa della Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta. Il caldo in combinazione con il mio migliore amico di questi mesi, il ventilatore comprato alla ferramenta qua vicino, in combinazione con l’acqua bevuta, l’acqua assorbita e subito dopo l’acqua sudata, porta alla alterazione di ogni riferimento temporale in cui qualsiasi cosa che è da fare diventa contestualmente poco credibile o praticabile solo nel pensiero in una sorta di teorico lontano impalpabile miraggio cognitivo. A mia difesa, perché è lì che voglio arrivare, non è che mi capita di avere chissà quali appuntamenti da tenere a mente a fine agosto e questo lo avevo
completamente scordato perché gli appuntamenti, di qualsiasi tipo, si danno da settembre in poi, che c’entra agosto con gli appuntamenti?, ad agosto si suda, la mente a priori esclude la possibilità che ci siano accordi per incontrarsi di qualsiasi tipo. Tranne in Norvegia, forse, o da Amburgo in su, dove non fa caldo ad agosto, o comunque dove non si suda tranne se proprio lo si vuole, per sadismo quindi, in una sauna, completando l’operazione frustandosi con dei ramoscelli di betulla correndo poi su un ponticciolo per buttarsi in un laghetto ghiacciato e ripetere l’operazione. Comunque, oggi avevo un appuntamento a mezzogiorno e me ne sono ricordato mentre stavo trascrivendo le ultime righe dei messaggi che avevo scambiato con mio padre. Quando me ne sono fortuitamente ricordato non ero in ritardo ma ci stavo riuscendo, preso a verificare e riverificare di avere ricopiato bene, rimandando lo stesso di due minuti in due minuti la corsa verso il luogo di questo benedetto appuntamento. Una volta terminato ho chiuso questo computer e spento il ventilatore, ho tranquillizzato il cane spiegandogli che lo avrei lasciato a custodire la casa per poco più di un’ora, in realtà per spiegarglielo l’ho dovuto svegliare, quindi credo che se ne sarebbe fatto una ragione, mi sono vestito e mentre chiudevo le finestre che il tempo fuori sembrava suggerire temporale, mi sono voltato verso lo specchio e nella mia faccia ho visto perfettamente il viso di mia mamma. Meno di un secondo dopo ero piegato di lato per assicurarmi tastando con la mano di avere le chiavi di casa in tasca ignorando razionalmente, come che fosse una anomalia di rifrazione della luce, quello che avevo appena visto. Partendo dai calzini, buttando un occhio a cosa mi fossi messo addosso saltato velocemente il settore dalle caviglie al collo, con il presentimento che qualsiasi cosa avessi indossato nell’ultimo minuto fosse già coperta di chiazze di sudore, sono tornato a guardarmi ignorando quello che avevo visto poco prima e con una certa vigliaccheria, tornando su, in alto, mi sono riconosciuto, si, certo, ma trovando di nuovo il suo viso esattamente nel mio. Non parlo dell’emersione di un ectoplasma di colore fluorescente
attraverso la mia carne, o di cose ridicole descritte da qualche trasmissione in terza serata ai confini del disimpegno con la razionalità che per il potere della Dottrina Unificata dell’Astrazione Assoluta in estate si moltiplicano e vengono proposte già ad orario di cena. Partendo dal naso, che sembrava proprio il nostro naso, di cui non avevo mai notato la sua fine tondeggiante, zigzagando tra gli zigomi alti, tra uno zigomo e l’altro, passando dalla bocca fino al mento e guardando con l’occhio sinistro il destro e con il destro il sinistro quel viso mi stava sorridendo, con un po’ di incredulità, allo specchio.
Mi sono salutato, ho salutato di nuovo il cane per non farlo impensierire, che comunque aveva già ripreso i suoi sogni e sono uscito di fretta.
Cazzeggiando tra le notizie suggerite da Google mentre aspetto di passare sulle strisce al semaforo capito sul titolo delle celebrazioni dell’anniversario di un giocatore di basket americano. Sotto al titolo c’è la foto di un grande murales fatto a Los Angeles che lo ritrae. Non è una immagine semplicemente commemorativa, si capisce che l’artista che l’ha fatta appartiene a quella cultura e quell’uomo è stato una grande influenza, una persona positiva per lui e per la sua comunità. Sotto il suo petto, lungo la maglia, c’è una parola resa tipograficamente come fosse il nome di una vera e propria squadra: Legacy. Il semaforo diventa verde per i pedoni. Chiudo il cellulare, attraverso la strada infilando un viale alberato e rispondo a quella parola dentro di me You can’t build such a Legacy if you don’t have clear who you really are, Non puoi costruire un tale lascito se non ti è chiaro chi sei veramente. Mentre mi dirigo verso l’appuntamento penso a quello che ho scritto in questi appunti dalla metà di luglio ad oggi alla ricerca di chiarezza e che ha aperto piste il più delle volte impensabili ed inizio a capire che nella mia vita c’è un prima ed un dopo questo diario.
Jocelyne’s spoiler special
Il cinque agosto scrivo su Signal a Jocelyne. Vale la pena tentare mi dico. Non so quando vedrà il messaggio o quando mi risponderà, però se la trovo vorrei coinvolgerla. Per quanto sia difficile per tutti parlarmi di mia madre lei è stata la sua migliore amica e non credo che quello che sto facendo possa avere qualche genere di senso senza la sua voce. Jocelyne non ha più l’account di Whatsapp. Tutti i miei contatti francesi da almeno due anni hanno spostato le comunicazioni su Signal. Quando dico tutti intendo letteralmente tutti. In ognuna delle chat c’è lo stesso identico messaggio di commiato. Dicono che non vogliono condividere i loro dati e quindi, in questa transumanza da una applicazione ad un’altra dettata da una psicosi collettiva o da un senso della privacy che molto probabilmente capirò troppo tardi per potermi tutelare, immagino, c’è anche lei e guidato dall’ansia di non poterle più scrivere, per non perdere lei e tutti gli altri che vogliono proteggere la loro privacy, due anni fa ho fatto anche io un inutile, davvero inutile, account su Signal.
Le scrivo un messaggio con un approccio semi-vago spiegandole che sto facendo qualcosa su mia madre, che ho iniziato a scrivere su di lei ma che non so spiegarle di preciso cosa stia diventando. Anche perché, come può perfettamente immaginare, di lei non so molto. Però so che lei è stata la sua migliore amica e le scrivo che mi piacerebbe se potesse raccontarmi qualcosa di quello che hanno vissuto insieme. Il che forse avrebbe a che fare con un tipo più profondo di privacy da un certo punto di vista, ma siamo su Signal e non ho dubbi sul fatto che lì a differenza di Whatsapp i nostri dati siano al sicuro.
Ogni volta che ho visto Jocelyne, anche da piccolo, ne ho sempre sentito il calore. È una persona magnetica ed il suo magnetismo sta
tutto in quella sua forma di libertà espressa attraverso la sua gentilezza. È una persona di cui a volte si potrebbe quasi sentire il bisogno per riconnettersi al senso stesso dell’umano. In qualche modo mi racconta molto di che tipo fosse l’altra, la sua migliore amica, mia madre. Non credo fossero simili. Senza averle mai chiesto niente ho sempre pensato che fossero un po’ del tipo opposte e complementari o qualcosa di simile. Una dava energia all’altra in qualche modo, comunque. Forse oggi anche mia mamma userebbe Signal e forse sarebbe difficile da trovare, proprio come Jocelyne. Entrambe avrebbero decine di cose da fare durante la settimana e progetti da qui al prossimo anno e forse di più e in tutto questo le importantissime chat distribuite in tutti i servizi di messaggistica che usano altre generazioni, la mia compresa fino al collo, non sarebbero particolarmente rilevanti. Anzi, i cellulari sarebbero impietosamente dimenticati, sempre da qualche parte tranne che con sé. Un po’ come fa mio padre. Un po’ come fa anche Jocelyne, appunto, con cui dopo alcuni messaggi distribuiti lungo l’intero mese di agosto un po’ come se fosse in una spedizione antropologica nel Rio delle Amazzoni senza possibilità di ricezione, riesco a mettermi d’accordo per sentirci al telefono il nove di settembre. Oggi.
Con questo vivavoce ho l’impressione che tu sia nella cucina con me. Non so se ti ricordi i tuoi venti anni, quanti tuoi amici avessero conosciuto tuo padre o la tua famiglia. Ecco, appunto, quasi nessuno. È una cosa normale. Anche io non avevo conosciuto i genitori di tua mamma. È successo soltanto dopo. I genitori ti dicono sempre cosa fare e cosa non fare, è normale volere uscire da quel vincolo e sentire verso di sé, nei propri confronti, di dovere vivere la propria vita. Quando ne parlava, sai, mettiamo un momento da parte il giudaismo. Ci sono dei dogmi nelle religioni, in tutte le religioni e regole, a volte molto strette, in ogni forma di relazione. Tua mamma poteva anche essere nata in una famiglia molto cristiana, molto osservante, sarebbe stata la stessa identica cosa. Oppure no, ad esempio mio padre era
molto autoritario, anche senza religione. Anche io sono partita di casa a diciassette anni però noi due ci siamo conosciute dopo.
Cercava una vita al di fuori del dogma. Una esperienza, una filosofia di vita al di fuori dell’autorità. Io glielo avevo chiesto, ne abbiamo parlato spesso di cosa cercasse e di cosa avesse trovato nelle sue esperienze. Aveva in testa una visione di vita libera e solidale e voleva sapere se quello che aveva vissuto a casa corrispondesse alla religione o fosse la sua famiglia ad imporre una vita così dogmatica. Lei cercava davvero tutt’altro, un tipo di vita collettiva ed in un kibbutz in Israele ha trovato un tipo di esperimento di collettività che non avrebbe trovato da nessuna altra parte. Credo ci sia stata un anno. Ne abbiamo parlato un sacco in passato di questa sua esperienza. Poi ha conosciuto un ragazzo, ma di lui davvero non ricordo il nome e sono partiti in Svizzera e si sono sposati e hanno divorziato poco dopo. Ah!, si, la cronologia di questa cosa è molto rapida. È qui che ci avviciniamo a quando ci siamo conosciute nel 1980.
Io, dopo che ero uscita di casa, ero tornata dalle Antille e volevo stare assolutamente a Parigi. Lavoravo in un negozio di abbigliamento e volevo iniziare una attività, come si dice in italiano?, nelle luci per lo spettacolo. Quando tua mamma è tornata in Francia invece ha iniziato a lavorare in una agenzia di viaggi, precisamente alla Havas Voyages. Faceva l’organizzatrice di viaggi. Le era facile e parlava un po’ di lingue. L’italiano ancora non lo parlava ma l’inglese, il tedesco e lo spagnolo si. E quindi. Allora. E quindi. Ci sono questi quattro ragazzi che erano arrivati con la loro Diane a Parigi in vacanza. Tuo zio Giuseppe, Germano, Agostino e Franco che non so se li hai conosciuti. Quattro ragazzi. Sono a Parigi, sono turisti, hanno prenotato un albergo e girano e fanno quello che fanno esattamente i turisti. Girano, girano, girano per tutta Parigi, si divertono e la sera escono. Anche tua mamma ed io vivevamo a Parigi. Vivevamo vicino alla metro Philippe Auguste nello stesso palazzo, allo stesso piano,
con la porta del suo appartamento precisamente di fianco alla mia, à côté de chez moi. Ma non ci conoscevamo ancora!, si! Eravamo vicine di casa. Ecco.
E quindi, come posso spiegarti. Allora. I quattro ragazzi italiani in vacanza a Parigi incontrano Sylvia in un bar, che anche lei dopo il lavoro si fermava al bar. Agostino vede tua mamma e lui era un vero dragueur, come si dice, un vero playboy, e si era lanciato su di lei chiedendole Ciao chi sei?, che fai?, vieni con noi a bere qualcosa? e quindi passano la serata a bere e evidentemente a discutere molto divertiti di cucina perché Sylvia li invita il giorno dopo a mangiare degli spaghetti da lei. Quindi i quattro turisti italiani a Parigi il giorno dopo si presentano a casa sua e mentre Sylvia cucina si accorge di non avere olio in casa. Loro le spiegano che senza olio non è una vera pasta e che da loro si usa andare dal vicino se in cucina manca qualcosa. Quindi cosa succede, ecco, si!, vengono a suonare da me, alla mia porta in due, ti giuro!, Agostino e Franco. Franco per fortuna parlava un po’ francese perché lavorava in Svizzera e mi dice Salve buonasera ci scusi la vostra vicina avrebbe bisogno di olio d’oliva per fare la pasta ma Agostino di fianco a lui si fa avanti e mi chiede subito Mi scusi mi permetta un’altra domanda, siete sola?, venga dalla sua vicina che stiamo facendo da mangiare, stiamo tutti insieme, e io davanti alla porta dico Ma io non la conosco neanche la mia vicina e allora loro due tornano da tua mamma per chiederle se possono invitarmi, tornano e mangiamo tutti insieme e facciamo serata da Sylvia. Allora a quel punto io ho un materasso per gli ospiti e propongo che in due dormano da me e altri due da lei. Il giorno dopo è un weekend, Sylvia lavora e io no quindi accompagno io i turisti italiani a Parigi a Versailles. Mi ricordo che ci saluta dicendoci A stasera, e ci siamo ritrovati dopo le cinque del pomeriggio. Quando riprendono la strada Peppuccio che in quel periodo stava invitando degli amici a raggiungerlo in Sicilia per l’estate ci propone di andarlo a trovare.
È in quei giorni che ci conosciamo con tua mamma, perché erano venuti a chiedermi l’olio per fare la pasta. Era la mia vicina di casa e dei turisti italiani arrivano a Parigi e con Peppuccio abbiamo avuto due figli e tua mamma conosce suo fratello e sei nato tu. E quindi, come posso spiegarti. Eravamo sempre insieme da quel momento. Abbiamo fatto la manifestazione contro il nucleare e poi quella sull’aborto. C’era quasi un milione di donne e qualche uomo per le strade di Parigi. Noi c’eravamo. Eravamo sempre insieme dopo esserci conosciute. Io non avevo un lavoro particolarmente importante da lasciare ma lei si, lei aveva un posto molto buono e senza un solo dubbio lo ha lasciato da un giorno all’altro. Lei era così. Era fine gennaio, avevamo già dato un mese di preavviso per lasciare i nostri appartamenti e siamo partite a fine gennaio in autostop con uno zaino. Per prima cosa siamo andate a Venezia passando da Reggio Emilia perché si, perché volevo rivedere ah si, lo volevo rivedere il mio Peppuccio, e da lì al ritorno siamo tornate verso il sud della Francia per andare a trovare una amica di tua mamma a cui lei era molto legata. Siamo rimaste da lei quindici giorni. La sua amica a casa aveva due biciclette e quindi, so che può sembrare strano, ma ti giuro che abbiamo usato tutto quel tempo per imparare ad andare di nuovo in bicicletta. Io ridevo, ridevo, ridevo. Tua mamma aveva davvero paura di salire sulla bici. Io la tenevo dalla sella per aiutarla a pedalare e lei si rimetteva dritta dopo essere caduta e provava di nuovo. Diceva che non sapeva più neanche come tenere l’equilibrio. Quindici giorni così, oddio forse non proprio tutti tutti i giorni, a imparare di nuovo ad andare in bici e a ridere, ridere, ridere. Non puoi avere un’idea. Poi comunque ci riuscì.
A quel punto abbiamo ripreso gli zaini e siamo ripartite in autostop in direzione dell’Italia. Io volevo proprio rivedere Peppuccio, quindi eravamo di nuovo in direzione di Reggio Emilia. In quel viaggio, quando vedevano che eravamo due ragazze sole e che non
conoscevamo il luogo, in tanti ci hanno ospitate, a volte più di un giorno, si si, anche se eravamo due perfette sconosciute. Con noi avevamo due libri. Uno era un Assimil, L’italiano in ottanta lezioni e ogni giorno provavamo a parlare con le persone o ad esercitarci ripetendo tra di noi o delle frasi del libro o delle parole che avevamo ascoltato. Sai, così, come si impara una lingua nuova. Una volta arrivate però capiamo che tuo nonno è morto, tu il nonno non lo hai mai conosciuto credo, esatto, e ci sono i suoi funerali in Sicilia. Peppe era partito e noi, arrivate alla casa di via Notari, facciamo conoscenza per la prima volta con Carmelo, che ora che ci penso sarebbe stato più avanti il ragazzo della Lorenza, che ci spiega cosa è successo. Insomma, aspetta che cerco di ricordarmi bene. Peppe era rimasto in Sicilia dopo il funerale di tuo nonno ma tuo padre era tornato subito per riprendere a lavorare. In zona c’erano molti concerti, mi ricordo che andammo anche a Torino al concerto di Bob Marley con lui. Ad un certo punto, ha!, capisco che tuo papà e tua mamma sono usciti insieme. È sempre in quel periodo che in via Notari ci sono anche Elvira e Lorenza e il gruppo si anima molto anche perché poi Elvira conosce Rosario.
Tuo papà e tua mamma stanno bene insieme, si vede, ma ad un certo punto decidiamo di riprendere la strada in autostop verso il sud italia in direzione della Sicilia e succedono mille cose. Arriviamo a Roma e lì ci carica, me lo ricordo benissimo ah, mon dieu!, un tipo in mercedes. Me lo ricordo bene perché ad un certo punto, questo guidava davvero veloce in autostrada, ci propone, ecco, ci offre della cocaina!, beh ma si ti giuro così mentre guidava, e noi non ne avevamo mai mai mai provata e questo prende una buca e quindi vola per tutta la macchina questa nuvola di cocaina e ci mettiamo a ridere e a ridere e a ridere e sentiamo che ridiamo ancor più forte di quando ridiamo forte normalmente e comunque scendiamo perché siamo arrivate a destinazione, a Napoli. Davvero un viaggio velocissimo. A Napoli mi ricordo di queste strade che salgono e dei vesponi che
vanno velece su e giù e delle signore che dai balconi quando ci vedevano con i nostri zaini con i sacchi a pelo ci facevano segno così, strofinando le dita delle mani, consigliandoci di mettere i soldi che avevamo nascosti dentro ai reggiseni. Napoli è davvero caotica e mi ricordo che camminando abbiamo trovato un chiostro blu e bianco, fatto di ceramica dipinta, un havre de paix come si dice, come si dice havre de paix?, e una persona lì ci spiega che in quei disegni è rappresentata la vita di tutti i giorni.
L’unico momento in cui in tutto questo viaggio non ci siamo sentite in sicurezza è quando in autostop scendiamo da Napoli a Salerno. La persona che guidava aveva cominciato da un momento all’altro a toccare il ginocchio di Sylvia, che era seduta davanti, ma immediatamente lei gli ha detto in maniera molto ferma di accostare senza fare scemenze e siamo scese. Questo è stato in tutto, tutto, davvero tutto il viaggio l’unico momento spiacevole. A Salerno abbiamo dormito in spiaggia e abbiamo trovato altri due o tre passaggi per arrivare alla nave-traghetto e raggiungere Messina. Eravamo quasi arrivate. Come si dice il sole del mattino?, alba, eravamo arrivate con l’alba, giusto. Se mi ricordo bene siamo arrivate alle sei o le sette del mattino a Castelbuono.
Quello che abbiamo fatto è un viaggio spensierato in cui spesso incontriamo tante persone che ci aiutano. Nelle grandi città ci fermiamo negli ostelli e diventa una occasione per fare gruppo o conoscere viaggiatori come noi, lungo la strada invece ci arrangiamo. Come ti ho detto lasciamo Parigi praticamente da un momento all’altro, non avevamo pianificato niente e non avevamo molti soldi con noi. È importante spiegarti questa cosa. Il viaggio era tutto in autostop, il più delle volte eravamo ospiti improvvisate, quando ci trovavamo in un posto sconosciuto andavamo in ostello e per mangiare ecco, il tema del mangiare è tutto un capitolo a parte. Ti assicuro che in quel viaggio mangiavamo molto, molto poco. Credo di averti detto che avevamo due libri con noi e allora uno era quello di
italiano, esatto, per imparare la lingua. L’altro era Il piccolo principe. Non lo leggevamo tutto insieme. Ne leggevamo una pagina dove facevamo pausa, dove ci fermavamo per riposare, e ci aiutava a sognare, ad essere in pace ma soprattutto a sognare. Quando potevamo farci un panino era un lusso. Avevamo trovato anche questa sorta di ravioli pre-cotti utilissimi nel viaggio e mi ricordo che con una forchetta condivisa in due, da una spiaggia, da un bosco o un altro posto improvvisato dove passare la notte, in queste cene o colazioni favolose di cibo pre-cotto, ci mettevamo a parlare delle migliori cene o delle migliori colazioni che avevamo fatto in passato nella nostra vita e ci raccontavamo di quello che avremmo voluto mangiare in quel momento. Posso assicurarti che il tema di quello che ci piaceva mangiare in quel viaggio con pochissimi soldi era centrale. Anzi, non riuscivamo proprio a smettere di parlare dei piatti che avremmo desiderato in quei momenti davanti ai favolosi ravioli pre- cotti.
Quando siamo arrivate Peppuccio ci ha accolte e aveva trovato una casa davvero rustica per noi. Era quella che usavano i tuoi nonni per lavorare la terra e raccogliere la manna in campagna. Si trovava tra il mare ed il paese, che è più lontano dal mare, e quella era finalmente la fine del nostro viaggio in autostop e l’inizio di altre esperienze. Con degli amici aveva comprato un furgone. Era rosso rosso rosso con una enorme scritta gialla con scritto -Nucleare? No Grazie!- . Era un veicolo che si poteva vedere, come dire, da molto lontano. La gente del paese ci vedeva arrivare che eravamo degli alieni. Devi immaginare che lì i ragazzi in quel periodo nelle strade non si tenevano neanche per mano e dovevano tenersi a distanza per non essere nelle chiacchiere di paese. Puoi capire come reagivano lì quando il portellone del furgone si apriva e ci vedevano uscire in dieci. Eravamo, come dire, un po’ catalogati e giudicati ma noi facevamo le cose normali che fanno i giovani. La casa, comunque, era davvero rustica, non so se te l’ho spiegato. Peppuccio era stato
davvero gentile, l’aveva un po’ sistemata per noi prima che arrivassimo. C’erano un po’ di cose per cucinare ma devi immaginare che l’acqua ad esempio si andava a prendere al pozzo che era più giù, lungo un sentiero. La sera arrivavano gli amici e si era unito anche un gruppo di francesi che Giuseppe aveva conosciuto in Puglia ed era bello, era davvero bello, era la festa. Si cantava e suonava, era davvero la festa, si beveva tutti insieme e si mangiava. Non so se riesci ad immaginare la situazione, i pochi mezzi in una cucina improvvisata in aperta campagna, ma una sera tua mamma ed io ci siamo messe a fare le crêpes per trenta persone. Le crêpes per trenta persone. Ti rendi conto?
Andavamo al mare. Ci accompagnava Peppuccio con il furgone, quello rosso e giallo con scritto -Nucleare? No Grazie!- . Tua mamma andava volentieri in acqua ma non era una gran nuotatrice.
Forse di questa cosa ne hai sentito parlare o forse no. Ad un certo punto un giorno alla casa è arrivata la polizia. Poco tempo prima era stato trovato come si chiamava, Moro, si esattamente lui, Aldo Moro, dopo il suo sequestro era stato ucciso e allora cercavano persone che potessero essere implicate. In paese molto probabilmente si erano detti Quei giovani non sono normali e ci avranno segnalati. Sono arrivati con le mitragliette, hanno accerchiato la casa e ci hanno fatte uscire. Stavamo ancora dormendo, ci hanno buttate giù dal letto. Hanno rovistato ovunque per capire se noi avessimo delle armi nascoste e ci hanno controllato le braccia per capire se facessimo uso di droghe. Si! Ti giuro! E ci tenevano per le braccia e intanto mi toccavano e io dicevo Non avete diritto di toccarmi! E loro dicevano Zitta!, stia zitta!, ma non hanno trovato niente. Ci hanno perquisite per un’ora. Un’ora di tensione con la polizia armata fino ai denti che cercava ovunque delle armi. Poi è tutto passato, sono andati via e l’abbiamo presa sul ridere perché noi lì davvero forse eravamo tutti strani per la gente di paese ma non facevamo niente di male. Dopo la paura è chiaro che ti viene da ridere. Quello era un altro lato della
società di quel tempo. Eravamo stati segnalati e non era importante che fossimo giovani e che volessimo semplicemente vivere la vita, stare insieme e divertirci. Sicuramente tra i tanti che passavano qualcuno fumava, ma per fortuna nessuno a parte noi dormiva lì.
Ho tanti ricordi, è chiaro che oggi sono confusi. Però una cosa posso dirti: questa libertà che ci siamo prese, questa voglia di lasciare tutto dall’oggi al domani io non l’ho mai più ritrovata. A parte l’amore per Peppuccio, ma è un’altra cosa, quel momento della mia vita che ho vissuto con tua mamma, con Sylvia, non l’ho mai più vissuto. Non voglio abbellire le cose, la vita insieme a tua madre è stata un grande momento di libertà. Lei non è mai più tornata in Francia, ha fatto la sua vita in Italia. L’anno dopo siamo tornate in Sicilia insieme.
Era curiosa della vita, si interessava ad un sacco di cose. Con una persona così era facile parlare di tutto e lei ed io parlavamo proprio di tutto. Lei sognava una bella storia d’amore e ha vissuto una storia di vero amore con tuo padre. Era comblé, come si dice, lunaire, ecco. Non so come si dice in italiano comblé. Come quando sei felice ma c’è una soddisfazione, una pienezza. Forse non ti dice niente questa cosa, ma era profondamente felice che stava aspettando un figlio. Forse sembra semplice, forse sembra una cosa semplice da dire, ma per lei era bello. E davvero non voglio abbellire le cose.
Poi, se mi chiedi come faceva colazione, beh prendeva il caffè. Non so se in questi anni ti ho mai raccontato che mi ha insegnato a fare il macramè. Ma se mi chiedi come sarebbe oggi, ecco, mi sento di potertene parlare come che fosse qui con me, di poterla immaginare e vedere. Sarebbe una persona con una intelligenza etica sulle cose. Noi non abbiamo vissuto il sessantotto ma venivamo da subito dopo. Che sia il viaggio in un kibbutz o da altre parti, noi tutti, insieme, è questo che cercavamo e che sentivamo di volere esprimere: la libertà. E tua mamma voleva la libertà e con lei ho fatto l’esperienza della
libertà. Oggi forse sarebbe una persona attenta. Sono sicura che sarebbe a contatto con la natura a vivere un po’ nel suo universo.
Scusa, ho finito completamente la batteria, il telefono si è spento, era bollente e ci ho messo un po’ per riaccenderlo.
Ma tu non hai le foto del nostro viaggio?, ora te le mando.
Appunti telefonici su via Notari
Per capire di più di questo famigerato luogo di cui parlano tutte le persone che ho ascoltato dove “c’è sempre del movimento di ragazzi giovani che vanno o che vengono, che ridono, che si abbracciano, che scherzano e c’è chi si ferma tornando dal lavoro, chi fa tappa da un lungo viaggio” in cui ha vissuto per un breve periodo mia madre con mio padre, prima che trovassero la casa che sistemarono e che mio padre abbandonò immediatamente dopo l’incidente di mia madre, ho chiamato due miei zii, Mimma e Rosario, i più anziani, per farmi descrivere direttamente da loro come la famiglia di mio padre dalla Sicilia arrivò lì in prima battuta, in via Notari.
Rosario
Come siamo arrivati lì? Beh ci siamo arrivati un po’ alla volta. Io abitavo in un sottotetto. Ero il primo della famiglia ad essere partito al nord per lavorare. Ti posso spiegare com’era la vita in quel periodo con questo esempio: non era necessario il frigo. Compravo i contenitori del latte due alla volta, quelli fatti a piramide. Ora non li
fanno più. Li tenevo tranquillamente in camera perchè non andavano a male. Il latte per fare colazione al mattino era congelato, usciva a scaglie. Avevo diciassette o diciotto anni, in quel periodo non mi accorgevo neanche che facesse così tanto freddo. La casa era di una coppia che aveva perso il figlio. Lui era sergente maggiore dell’esercito, la moglie ricordo con molta gratitudine che mi lavava i vestiti. Andavo a lavorare e ogni tanto passavo dalla mensa del Gramsci, poi tornavo in via Pascarella.
Noi in via Notari ci siamo arrivati così. Sei mesi dopo che lavoravo stabilmente si è fatta avanti l’idea che mio padre, il nonno, volesse raggiungermi e così anche gli altri, anche perchè la famiglia si stava allargando in quel periodo. Così ho cercato una casa più grande e l’ho trovata in via Gattalupa. Lì c’era il riscaldamento, non era una cosa da poco rispetto alla mia stanza ed era su tre piani. Sotto c’era il padrone con il figlio che si era appena sposato. La casa era molto cara, tra l’altro anche per via del riscaldamento, e ci siamo spostati. In officina dove avevano iniziato a lavorare il nonno e anche tuo padre per poi trovar ognuno un proprio impiego da altre parti, tramite i padroni dell’azienda, abbiamo trovato la casa di via Notari. A quel punto eravamo più sicuri e ci hanno raggiunti tutti.
Comunque, ribadisco: quando ci sentiamo, tuo padre mi racconta delle cose che io davvero non ricordo più. Non so come faccia. Si ricorda anche le virgole. Prendilo di sorpresa uno di questi giorni e piano piano gli fai sputare il rospo.
Sulla cosa di Peppino Impastato, devi chiedere forse agli altri zii. Io non c’ero più, immagino. Poi secondo me non bisogna legarsi a queste mitizzazioni. Non bisogna mitizzare nessuno. È passata molta gente, tutto qui.
Mimma
Non sapevo dove si trovasse Reggio Emilia a diciassette anni, o che esistesse, quando sono partita. Oggi si prenota, hai un biglietto in cui c’è scritto tutto. Sai il numero del tuo vagone, hai il tuo posto anche quello numerato. Abbiamo fatto il viaggio nel corridoio, il treno è impossibile da descrivere, era stracolmo, pieno di gente e noi avevamo una valigia enorme con dentro tutte le nostre cose. Siamo partiti di mattina alle sei o alle sette e siamo arrivati che era il mattino dopo. Ci abbiamo messo ventiquattro ore per arrivare. Oggi i tempi almeno si sono dimezzati. Ad aspettarci in stazione c’era Rosario. Arrivammo in questa casa nuova, me lo ricordo ancora, molto diversa da quella che avevamo lasciato in Sicilia. Mi ricordo che eravamo a maggio e c’erano ancora i termosifoni accesi. Per me era una cosa stranissima. A luglio lo zio prendeva già dei lavoretti per me. Mi aiutava, li facevamo insieme la sera dopo che tornava a casa dal suo lavoro. A settembre ho iniziato a lavorare in fabbrica e per diciassette anni ho lavorato lì assemblando o confezionando cose. Non era un periodo spensierato, ma i miei datori di lavoro erano gentili. In paese andavo dalla sarta, andavamo in cinque o sei amiche. Si imparava il mestiere, si stava insieme e c’era del movimento, era tutto decisamente molto diverso dalla fabbrica. Le industrie del tessile qui in città erano da tutt’altra parte e mi sono adattata nell’industria plastica. Tu pensa che quando sono partita non sapevo neanche andare in bici. Ho comprato una bici ed ho imparato a pedalare con Rosario. Ero sempre impegnata, andavo e venivo in bicicletta da lavoro. Tornavo per mangiare a casa e poi riprendevo il turno. Cinquantadue anni fa c’era la povertà. La vita in paese mi sembrava bella, si, ma era tutta lì. Come noi tante altre famiglie sono partite e c’è chi non si è fermato nel nord Italia, c’è chi è andato in Germania e chi ancora più lontano.
Il primo anno qui non avevo mai visto così tanta nebbia e neve in vita mia. Una volta, tornando a casa da lavoro in bici, da lontano avevo visto una sagoma da lontano e avevo preso davvero paura fino a quando non ho sentito la voce di tuo nonno che mi chiamava. Era lui che nella nebbia, tornato da lavoro, mi era venuto a cercare. Avevo davvero preso paura. Doveva avere pensato che sua figlia non avesse mai visto così tanta nebbia ed era tornato sulla strada per cercarmi. Adesso questi nebbioni non ci sono più da diversi anni.
La casa che aveva trovato Rosario in via Gattalupa aveva due camere da letto, un bagno ed una cucina. C’erano tre case lì attorno, era campagna. Oggi praticamente è parte della città. È in via Notari che ho visto per la prima volta tua mamma, ma io non abitavo più lì. Era nata Annalisa e vivevo già con Andrea. Quella di via Notari è la casa dove è passata davvero tutta la famiglia. Mi ricordo che facevo il bucato nello stesso lavandino dove lavavo i piatti. Sono cose che oggi, forse, non si possono capire. A giugno mio padre andò a votare in Sicilia e tornò su con tuo padre e con tua nonna. La nonna era arrivata con Maurizio che aveva due anni e Mario che aveva pochi giorni. La nonna era rimasta in via Notari almeno otto o nove anni ma non si è mai ambientata, cercava di tornare sempre giù quando poteva. Il nonno non era per niente una persona autoritaria, era una persona buona. Quando raggiunse l’età della pensione i tuoi nonni tornarono giù in Sicilia.
Via Notari a quel punto non so da chi fosse vissuta. Giuseppe era andato a Padova per un paio di anni, tuo padre in Madagascar.
Non so sinceramente chi fosse rimasto.
Non ricordo più.
(alcune considerazioni finali) (forse sono inutili)
(sono decisamente inutili)
Questo testo credo che possa raccogliere la prima parte di tre momenti che possono descrivere il mio rapporto con mia madre anche se la sua missione principale penso sia compiuta con questi capitoli e posso spiegarne il motivo.
Mia madre per molte persone è tuttora l’incidente. In queste pagine si può capire che ci è voluto molto lavoro per rivendicare, anche nei confronti di me stesso, la sua identità al di fuori del momento che l’ha uccisa. Per arrivare a risvegliarne superficialmente alcune parti della personalità attraverso alcuni ricordi di com’era, quale fosse il suo modo di fare le cose, di ridere, di pensare anche, credo sia necessario arrivare quasi alla fine di questa lettura.
L’intenzione con cui è iniziato il lavoro su questo testo ha aperto a dinamiche inaspettate che ho seguito con fiducia e da cui mi sono lasciato trasportare. I capitoli sono stati scritti tra il 14 luglio ed il 9 settembre, uno dopo l’altro. Questo non è un lavoro di calcolo o di taglia e cuci, è un sentiero che si è aperto quando ho posto la stessa domanda che è stata posta a me il 14 luglio ad una pagina bianca una volta arrivato a casa: -Mi parleresti di tua madre?-.
Ho soltanto aggiunto i capitoli intitolati Parigi, numerandoli in maniera sequenziale, mano a mano che portavo avanti il blocco principale, sapendo che parlare di un evento recente e qualsiasi della mia vita, qualcosa soltanto in apparenza slegato da mia madre, avrebbe fatto capire quanto mi faccia determinare ancora da questioni dovute a molti aspetti della sua scomparsa e da altrettanti
aspetti di lei che ho capito di incarnare per tutto questo tempo inconsapevolmente. Parigi, 5 e Tanatocatapsia parlano dell’impossibilità di produrre qualcosa di duraturo da donare agli altri fino a quando la persona non è pienamente centrata, non è cosciente della sua identità in maniera completa. Solo a quel punto può costituire un lascito dopo sé stessa. Qualsiasi tentativo diversamente è inutile e porta al fallimento, anche involontario, anche quando si è guidati dalle migliori intenzioni.
Ho definito una tregua anni fa con questa sofferenza, personale e collettiva, e ho dovuto ripercorrerne il sentiero per scrivere queste pagine. L’ho giudicato necessario per anche solo pochi secondi permetterci, insieme, di compiere anche solo un passo trasformativo oltre a quel momento fermo nel tempo e capire che fosse possibile ricordare altro. Ricordare cose inaspettate e felici nel passato per trovarne altre, altrettanto inaspettate, nel presente. Vivere un altro presente.
Non posso spiegare quanto la morte di mia madre sia destabilizzante per me e per chi ho attorno. Credo che tutti i legami, tutti, siano cambiati o siano stati annientati in relazione a quel singolo evento ed a quanto potessi capire o sostenere di quel punto nel tempo in diverse fasi della mia vita. Alcuni vivono in quel lutto senza ancora riuscire a scioglierne il nodo, altri con quel lutto hanno convissuto fino a che, anche per loro, non è arrivata la fine. Uscire dalla gravità di quel buco nero che ha divorato tutto, compresa gran parte di me stesso, è quello che ho capito di stare facendo scrivendo fino a qui. Trovarsi al di fuori di un buco nero cambia la prospettiva ma è davvero più facile a dirsi che a farsi quando ci si accorge quanto gran parte di ciò che si è vissuto in tutta la propria vita è il buco nero stesso. Non pensavo a questo esito a metà luglio. A niente di tutto questo, di quello che si può leggere e di quello che è successo nella mia vita.
Mia madre è sempre stata un tabù. Non poterne parlare, soprattutto non cercare strumenti per elaborarne significativamente la dimensione umana, lasciare che le cose andassero avanti basandosi esclusivamente sulle proprie forze, negando il problema, ha generato semplicemente, beh, si: molti nuovi problemi. L’errore implicito di cristallizzare il suo significato in un incidente non ci ha semplicemente neutralizzati. È stato il migliore modo per dividerci. Poteva acquisire nel tempo molti altri significati, semplicemente il suo, anche. Quello tra i tanti di una persona positiva ma fragile, anche. Quello di una persona di ingegno e determinata, anche. Quello di una persona creativa, molto creativa e molto coraggiosa, anche. Ma è il dolore su cui, senza cercare aiuto, si è arrivati a convergere per sedersi e guardare in una sorta di coma relazionale solo l’inizio di una escalation di attriti e violenza che ci ha definiti, che ha definito noi, esclusivamente come stupidi superstiti. Al dolore che ho visto in mio padre crescendo con lui da piccolo, ho risposto trasformando quello che sentivo, che lo faceva soffrire ogni giorno, in rabbia e dando a questa rabbia la libertà di divorarmi. È questo non gestire inizialmente il lutto che ha imbastito le coordinate perché questa famiglia di due persone fosse unita e auto-definita esplicitamente ed esclusivamente dalla tragedia e che non potesse rimanere in piedi e che fosse sostanzialmente spacciata da quella scelta di significato in poi sulla linea del tempo.
Senza strumenti per decifrare le emozioni del lutto, mia madre è diventata il valido capro espiatorio per riuscire a non comunicare e dai miei undici anni in poi, con il tentativo di mio padre di ricreare una famiglia, cosa di cui non parlo in questi capitoli, condurre una guerra di trincea in difesa di un significato reso insignificante. Da un certo punto in poi ci sarà solo cecità, non c’è né madre né padre né fiducia in qualsiasi persona. C’è il buio, perché gli strumenti che ho non sono sufficienti e non possono portare ad altro se non replicare
con fedeltà quella lotta impari vista da bambino tra mio padre e la morte. C’è un bambino, che diventa un ragazzo e poi un adulto, che preferisce con ostinazione il dissanguamento, facendosi trovare ogni volta seminando le tracce di quel sangue, piuttosto che fermare una emorragia che nel campo alterato dei significati di amore, dolore e rabbia, interpreta come il giusto tributo per ricordare una persona di cui non ha alcun ricordo e che desidera con un sistema di valori talmente sbagliato da capire come una questione logica il suicidio per avvicinarsi a lei. Mi fermo su questa parola definitiva. L’uso di questa parola non mi dà piacere, non si trova in questo testo per qualche tipo di ricerca di attenzione. Anzi lo è, ma di certo non verso un lettore. Fa parte di una reazione in alcuni casi irreversibile rispetto alla mancanza. In A General Theory of Love, un libro scritto da tre psichiatri si può leggere “Separa un cucciolo da sua madre, mettilo da solo in un recinto e sarai testimone della reazione universale dei mammiferi alla rottura di un legame di attaccamento, un riflesso dell’architettura libica condivisa dai mammiferi. Brevi separazioni provocano una risposta acuta nota come protesta mentre separazioni prolungate producono lo stato fisiologico di disperazione.” .
Dopo la rottura del legame, della fase di protesta e quella di disperazione, senza strumenti e senza una disciplina che ponga una resistenza cosciente all’incremento del dolore, la persona non può emanciparsi da questo tipo di trauma.
Dopo i miei undici anni, di punto in bianco, tornato dalle vacanze in estate, la casa in campagna, dove abitavo con mio padre, era sparita. Non abitavamo più lì e la spiegazione non mi era dovuta. Mi trovavo in un appartamento molto diverso, in una casa popolare, con altre persone. Mio padre aveva trovato una compagna, la compagna aveva un figlio. Quindi dalla campagna mi trovavo in un appartamento di settantasei metri quadri al quarto piano con mio padre, una donna, che in maniera netta dicendomi Io non sarò mai tua madre rese molto più facile capirsi e con il figlio di lei, interessato esclusivamente ai motori ed al calcio, con il quale condividere una stanza e prevedibilmente niente altro, senza ipotetici periodi di ambientamento. La cosa non andò a finire bene. In pochissimi anni la mia esperienza di convivenza finì mentre mio padre continuò a vivere con loro e con lei ebbe un figlio che crebbe in maniera decisamente diversa da come posso dire di avere vissuto la mia vita con lui, passata a rivendicare prima e dopo un rapporto padre-figlio che non è mai esistito nei miei confronti.
Andai a vivere per qualche mese da mio zio in un mini appartamento. Con la promessa di mio padre di tornare a vivere insieme, mi trasferii nuovamente in una casa poco distante dal cimitero dove era mia madre per poi in sequenza capire che una cosa del genere non sarebbe mai successa, iniziare a sedici anni una convivenza con la mia prima ragazza tedesca ed andare via, raggiungendola all’università di Amburgo dopo avere passato gli esami di ammissione in quarta superiore, sparendo dalla circolazione.
Quando ho iniziato quasi due mesi fa non sapevo di cosa avrei dovuto scrivere perché il compito era chiaro, ma ero più che convinto di non sapere niente su di lei se non uno sgangherato e ripetitivo puzzle di aneddoti ed un altrettanto macchinoso sistema di ciarlataneria spirituale fai da te messo in piedi nei tentativi più svariati di trovare un equilibrio o di trovare una connessione con lei, questa cosa da sola credo meriti diversi capitoli a parte, perché c’è un mucchio di cose che ho tentato, anche in quel senso. Sono tante le cose che ho scritto e tante le cose trasformative che di pari passo sono successe nel presente. È la stessa scrittura del testo che si è assegnata il compito più difficile, andando più in profondità.
Spingere, come un soccorritore, fuori dal momento dell’incidente il significato stesso di mia madre ha generato l’inizio di una chiarezza inaspettata per farmi uscire da un corto circuito debilitante che nella mia vita ha sempre preferito sacrificare il legame con lei in cambio
della rabbia interconnessa ad un evento specifico nel tempo che, come può essere ovvio a chiunque leggendo in fila i capitoli, non può descrivere niente della sua figura ma che non poteva essere ovvio per chi in quel buco nero ci ha vissuto fino a pochi secondi fa nei termini di tempo percepito dai buchi neri.
Grazie
Em